L’ultimo viaggio del dottor Clarke


"Il Kilimanjaro è un monte coperto di neve alto 5.890 metri e si dice che sia la più alta montagna africana.

La vetta occidentale è detta Masai Ngàje Ngài, Casa di Dio. Presso la vetta c'è la carcassa stecchita e congelata di un leopardo. Nessuno ha saputo spiegare che cosa cercasse il leopardo a quell'altitudine."

(Ernest Hemingway, Le nevi del Kilimanjaro)


E’ ancora un’anacronistica linea ferroviaria, rugginosi binari di ferro e traversine di legno catramato, a collegare New Mombasa, la capitale dell’Unione Africana, con le pendici del monte Kilimanjaro.

Il mio viaggio parte dalla stazione centrale, architettura puro neo-colonialismo, che male si accosta allo skyline dei grattacieli della nuova metropoli africana.

Ben presto attraversiamo la periferia fatta di immensi, disperati gironi danteschi di cartone, lamiere ondulate e fogli di nylon, fogne a cielo aperto e strati di chokora, immondizia.

Poi ecco la boscaglia miombo, o almeno quel che ne resta. Solo verso la fine del viaggio incontreremo le ultime enclavi di foresta equatoriale.

Mi rendo conto che raggiungere la zona dei grandi vulcani è una sorta d’odissea che attraversa tutti i contrasti e le contraddizioni dell’anno 2020.

Sono l’unico passeggero della carrozza e questo mi condanna a ricevere tutta l’attenzione dell’hostess di bordo. La guardo muoversi con passo sicuro e bilanciare con grazia gli ondeggiamenti del treno mentre porta il vassoio del pranzo.

Sta per ritirarsi nella sua minuscola cabina quando mi accorgo che in realtà ho voglia di compagnia, così la fermo con un pretesto, provo a parlarle in swahili e lei sorride imbarazzata. Mi dice che in realtà è di etnia turkana, discendente diretta da una delle ultime tribù di pastori nomadi ma che per essere un bianco ho un ottimo accento africano.

Racconta che prima di essere assunta dalla compagnia ferroviaria si occupava delle operazioni di bonifica nei territori della Rift Valley dai veleni importati dall’occidente.

Ancora adesso, lei indica il finestrino, si vedono le colonne nere e dense di fumo dell’e-waste, cumuli di ciarpame elettronico bruciati dai poveri disperati per ricavarne metallo prezioso.

Il treno prosegue la sua corsa sferragliante; mi piacerebbe osservare qualche animale selvaggio, so che ce ne sono ancora, invece mi addormento cullato dal movimento regolare e ipnotizzato dal paesaggio della savana che scorre uniforme.

Gli unici leoni che vedo sono quelli di un bizzarro sogno dove mi ritrovo passeggero di un battello che naviga lungo una costa inesplorata. Quando mi sveglio il treno è appena arrivato a destinazione.

Mentre sto per scendere l’hostess si avvicina per salutarmi. Lo fa con naturalezza, quasi con l’affetto di una moglie che saluta il marito sulla porta di casa; prima di risalire sul treno infila nel taschino della giacca la mia antiquata penna stilografica che, probabilmente, è caduta mentre dormivo.


Ad aspettarmi sulla banchina trovo uno degli assistenti del professore: è impaziente e sono quasi costretto ad inseguirlo mentre mi scorta verso la teleferica che porta alla zona d’imbarco. Iniziamo la risalita lungo le pendici aspre dei basalti di antiche colate laviche: so che non troveremo più ghiacciai e nevi perenni e non ne sono stupito.



Intanto il mio accompagnatore sta cercando di istruirmi su tutti i protocolli che questa insolita missione sembra richiedere, ma è la vista dell’artefatto, l’ascensore per le stelle, a richiamare la mia attenzione: una colonna perfetta che parte della sommità del monte e si perde nell’azzurro del cielo africano.

E’ una delle più grandi conquiste dell’umanità ed è stata la chiave dell’esplorazione spaziale: tutte le componenti delle astronavi e delle basi orbitali o planetarie partono da questa struttura o dalle sue tre torri gemelle.

E da qui che ora transita, naturalmente, gran parte del personale, astronauti, tecnici e scienziati: molto più comodo, sicuro e decisamente più economico dei razzi e dei voli suborbitali.

Meno avventuroso, forse, ma al giorno d’oggi chi bada più al lato romantico di un viaggio?

So di sembrare un giovane presuntuoso e indisponente, ma l’aura di segretezza, la pignoleria dei dettagli, i percorsi da seguire, il comportamento da tenere dinanzi al professore, tutto questo mi indispone. Alla fine me ne resto con il naso schiacciato sui vetri panoramici della teleferica, assentendo con cenni del capo a discorsi che in realtà non ascolto.


Sulla cima del vulcano l’immensa costruzione dell’elevatore fa sembrare ogni cosa, ogni persona come una formica al cospetto di un gigante.

Non ho molto tempo prima della partenza del climber: le cabine dell’ascensore devono partire con una frequenza ottimale, in modo da minimizzare l'usura e le oscillazioni a cui il cavo è sottoposto.

Nessun rischio ovviamente, ma se uno di questi moduli dovesse sganciarsi dal cavo nei pressi del dispositivo di ancoraggio orbitale, avrebbe ormai acquisito una velocità di fuga in grado di farlo uscire dal sistema solare!

Una rottura del cavo portante ad un'altitudine diciamo di 25.000 chilometri, darebbe il via, invece, ad una drammatica caduta e il cavo stesso si avvolgerebbe attorno all'equatore generando una linea di distruzione meteorica.

Questi sono i momenti in cui non vorrei essere un giovane brillante ricercatore!

D’altro canto sulla base spaziale Pasteur mi sta aspettando lui, il professore, e questo è veramente un onore che vale tutti i disagi di un viaggio orbitale.

Sdraiato su di una comoda cuccetta antiaccelerazione faccio conoscenza con gli altri passeggeri: sono tecnici e ricercatori della Wey-Land, la corporazione sostenuta dalla CNSA, l’ Agenzia Nazionale Cinese per lo Spazio.

La loro curiosità nei confronti della mia missione sembra frutto di pura cortesia, ma è evidente una certa tensione nei loro sguardi: come insegna Sun Tzu sull'Arte della Guerra: “Conosci il nemico e te stesso, e potrai combattere cento battaglie senza timore di essere sconfitto”.

Nessuno può più nascondere al giorno d’oggi il fatto che la Cina sia diventata il nuovo antagonista del mondo occidentale e che gli attriti politici sempre più stiano assumendo una connotazione diciamo “militare”.

Cerco di non alimentare troppo la conversazione o almeno di dirottarla verso tematiche meno “critiche”.

La cabina dove ci troviamo non ha oblò, ma dai piccoli schermi incastonati negli schienali delle cuccette; volendo potrei seguire i notiziari, o un evento sportivo, oppure un concerto.

Preferisco però vedere le immagini trasmesse dalle telecamere esterne: il cielo che da azzurro diventa violaceo e poi nero velluto, .la curvatura della Terra che si accentua via, via fino a mostrare una perfetta sfera azzurra, appena sfumata di ocra e di verde, che galleggia nello spazio.



L’ascensore spaziale del Kilimanjaro è fissato ad un grande asteroide in orbita geosincrona; pozzi verticali e corridoi scavati nella roccia collegano i diversi livelli e le sezioni della stazione orbitale.

Il pensiero dello sbarco mi procura un certo sollievo: sono quasi alla fine del viaggio.

Mi sgancio dalle cinture di sicurezza – adesso ci troviamo in assenza di peso – e con prudenza mi spingo verso gli uffici della dogana; qui sono sottoposto ad una scansione ottica per il riconoscimento dell’identità e devo rispondere alle normali domande di routine: Dov’è diretto? Qual è il motivo della sua visita? Quanto pensa di fermarsi?

Mi viene consegnato quindi un badge di riconoscimento: il computer centrale della stazione potrà così riconoscermi e guidarmi attivando strisce luminescenti lungo i percorsi ai quali sono autorizzato ad accedere.

Ho un “loculo” prenotato per me all’Hilton, giusto il tempo per darmi una rinfrescata e mangiare qualcosa, sempre che le pillole per il mal di spazio abbiano funzionato.

Poi devo recarmi a rapporto dal professore.

Ultimo chairman del Consiglio Nazionale dell’Astronautica, una leggenda vivente, Helwood Floyd vive ormai stabilmente nello spazio, a causa dei gravi postumi di un incidente al momento del rientro dalla sua missione alle lune di Giove. Il suo corpo, semplicemente non può più tollerare la gravità piena, ma la sua mente e le sue grandi capacità fanno di lui uno dei cardini dell’esplorazione interplanetaria.

Non so di che cosa si stia occupando adesso, ma la riservatezza che circonda ogni sua impresa ha un che di romantico.

Attraverso corridoi bianchi, agganciato all’anello del nastro trasportatore che scorre lungo la parete. Guardo le persone che vivono e lavorano qui. Il loro abbigliamento, aderente e funzionale, la loro capacità di vivere senza un alto o un basso apparente, le convenzioni sociali che regolano i loro rapporti, quasi impercettibili ma sempre presenti. Cerco di imitare nei movimenti le persone che mi precedono: ogni cambio di direzione, ogni incrocio, è un salto acrobatico.

Raggiungo l’hotel e deposito il mio piccolo bagaglio nell’armadietto di sicurezza, il tempo di una doccia agli ultrasuoni, di uno spuntino (insapore purè di alghe e gelato di licheni) e già devo recarmi al luogo del rendez-vous.

Peccato, sullo schermo gigante della hall stavano trasmettendo la finalissima del campionato di rollerball! Faccio fatica a staccarmi e solo dopo un po’ realizzo come sia strano il fatto che, anche a migliaia di chilometri da casa, ci trasciniamo dietro invisibili legami che ci trattengono dall’essere liberi viaggiatori.

 

Una tuta per le attività extraveicolari! Non se ne era parlato negli accordi: sono uno statistico, non un astronauta!

Protesto, ma so che è troppo tardi per tirarmi indietro.

Pensavo di essere giunto alla fine del percorso e invece mi trovo davanti ad una teutonica istruttrice che continua minacciarmi mentre sto cercando di indossare un complicato scafandro spaziale.

La valchiria, ormai disperata per l’inettitudine del terricolo che ha di fronte, ripete per la quarta volta le istruzioni per l’utilizzo dei comandi dello zaino a razzo, per l’attivazione del radiofaro e i meccanismi del sistema di evacuazione; poi il portello della camera di decompressione si apre sul nulla e mi ritrovo rimorchiato come un pacco postale per i venti minuti di volo libero che separano l’asteroide da un vecchio modulo orbitale.

Ho tutto il tempo per annoiarmi, pensare ai fatti miei e meravigliarmi del panorama che scorre sotto i miei piedi: quella cosa, 35 mila chilometri più giù, è la Terra!

Distinguo chiaramente l'Africa, dove tutta questa storia, la nostra Storia, è misteriosamente iniziata qualche decina di migliaia di anni fa…


- Benvenuto a bordo.

Così recita una voce sintetica nei miei auricolari mentre cerco di entrare, il meno goffamente possibile, nella piccolissima camera di decompressione del laboratorio orbitale.

Sento il sibilo dell’aria e rumori e vibrazioni attraverso il casco; una luce verde sul pannello indica che la pressione e la temperatura si è ristabilita.

Si apre il portello interno e mani amiche mi aiutano ad entrare: è il professore in persona.

Riconosco il mento deciso, le rughe scolpite attorno agli occhi e il suo sorriso da ragazzo.

E’ lui che mi sgancia il casco.

L’aria del modulo è .. strana … quasi pesante, odora di chiuso e di riciclo.

Ci farà l’abitudine - mi dice - e anche al disordine, ma proprio non c’è il tempo per queste cose.

Mi trascina, letteralmente, verso una consolle e parla come un fiume in piena.

- Ecco, questa sarà la sua postazione. HAL l’assisterà nel suo compito di ricostruzione dati. Dobbiamo sapere al più presto il contenuto dell’ultimo messaggio che ci ha inviato l’equipaggio dell’Odyssey da Saturno. I file dati sono arrivati illeggibili e corrotti. Maledizione! Giove era in pieno allineamento e le sue interferenze elettromagnetiche hanno schermato quasi del tutto le trasmissioni con la missione. Mi dicono che lei è in gamba con gli algoritmi di perequazione e interpolazione. Insomma si dia da fare! …

E naturalmente… Benvenuto a bordo.


Sullo schermo vedo i primi fotogrammi ed è come assistere ad una serie di diapositive offuscate; il sonoro è un fruscio incomprensibile.

Di fronte alla consolle, però, non sono più il viaggiatore spaesato, sono il mago nel suo antro segreto!

Inizio ad attivare i miei programmi preferiti in un opera di ripulitura e di ricostruzione della trasmissione: si tratta, in realtà, di tecniche ampiamente utilizzate fin dal secolo scorso per gestire le trasmissioni dati dei satelliti e delle prime sonde spaziali.

Parto da un fermo immagine: vi si riconosce a stento la persona che sta inviando il suo rapporto.

Riconosco il dottor Clarke, un astrofisico di fama mondiale; la sua missione diretta a Saturno è partita cinque anni fa con gran clamore, poi l’attenzione dei media si è spostata verso notizie più “eclatanti” e vicine al pubblico, nello spazio, nel tempo e negli interessi.

Eppure era una missione importante, se ben ricordo, con obiettivi scientifici, ma soprattutto politici ed economici: i cinesi reclamavano infatti a gran voce la revisione dei trattati sulla nazionalizzazione e sullo sfruttamento dei corpi celesti e una loro missione di conquista nel nome del popolo, era appena stata lanciata proprio verso il satellite Titano...

Un display mi informa che la prima fase dell’operazione di recupero fotogrammi è terminata, adesso mi devo occupare del suono. Sto lavorando su un breve frammento di trasmissione scelto a caso, ma se il procedimento funziona come spero, lo estenderò all’intera banca dati.

Questo vecchio modulo orbitale manca di qualsiasi comodità, ma non di potenza elaborativa!


L’orologio di bordo segna che è notte fonda. Dall’oblò riesco a vedere una falce di Terra.

Dopo aver lavorato per almeno quattro ore consecutive alla consolle ho gli occhi arrossati e provo un gran mal di testa, ma sembra proprio che il mago abbia compiuto la sua magia e che il salvabile di una trasmissione che sembrava compromessa, sia stato salvato.

Mi stiracchio - senza le strisce di velcro che mi fanno aderire alla poltroncina sarei già volato via! – e poi lancio il primo frammento di trasmissione per ascoltarlo nella sua interezza prima di comunicare il mio successo.

A parlare è proprio il dottor Clarke: - … è un fenomeno raro, quello al quale stiamo assistendo: la pioggia cade su Titano una volta ogni mille anni! Adesso la temperatura esterna è scesa a meno 179 gradi celsius e la luce è ridotta ad un mero crepuscolo arancione. Fino a qualche minuto fa il vento non era rilevabile ma adesso è un vero e proprio monsone di metano liquido.

Iniziano a scavarsi solchi profondi sulle basse colline del nostro sito di sbarco e rivi di metano stanno riversandosi sulla pianura sabbiosa…

E’ uno spettacolo eccezionale: la fitta nebbia di idrocarburi, che ai miei compagni di viaggio fa ricordare la città di Los Angeles nelle sue giornate migliori, ora è stata spazzata via del tutto.

Adesso si osservano degli strani pennacchi di fumo verso la zona che abbiamo chiamato “la palude”.

Sono… aspettate, sono dei geyser di… acqua e ammoniaca, forse un’eruzione dovuta ai contrasti termici.

Ecco, all’improvviso la pioggia è cessata… -


La qualità della trasmissione non è certamente ottimale, le interruzioni si susseguono laddove gli algoritmi di perequazione non sono stati in grado di riempire “i buchi”: - … Definitivamente è neve. Sta nevicando su Titano. E’ materiale organico come quello che ricopre le zone polari. Probabilmente il sottosuolo è pieno di giacimenti, di sacche non congelate dove le molecole si combinano e ricombinano grazie al calore endotermico del satellite… Sta nevicando da meno di un’ora è già al suolo si sarà depositato uno strato di almeno mezzo metro di cristalli di idrocarburi… -


L’eccitamento nella voce del dottor Clarke ha ceduto il posto alla freddezza dello scienziato, o forse alla stanchezza dell’uomo: - Questo viaggio ci sta rivelando scoperte eccezionali… i primi campioni raccolti ed esaminati rivelano strutture complesse… presupposti della vita… come sul satellite gioviano Europa… Aspettate, sta capitando qualcosa… il capitano mi sta facendo dei cenni… Sono… sono i cinesi! Stanno allunando, non con un semplice modulo di sbarco, ma con l’intera loro enorme astronave… Adesso possiamo vederla nella sua interezza…Wey-Land Corporation: non è un vascello da esplorazione, è una specie di fabbrica automatica spaziale, quelle sono torri di trivellazioni, quei macchinari potrebbero essere una raffineria e certo serbatoi così grandi… -


Premo il tasto “pause”. Ecco il motivo di tanta segretezza: Clarke ed il suo equipaggio hanno scoperto nuove forme di vita, un intero ecosistema e questo comporterebbe, secondo i trattati attuali, una quarantena per l’intero planetoide, ma i cinesi vogliono procurarsi combustibile fossile in quantità praticamente illimitata.

Ricordo bene che un evento simile si è già verificato sul nostro pianeta con la scoperta dei giacimenti petroliferi in Antartico e una guerra mondiale è stata sfiorata nel 2001 quando la crisi energetica aveva portato allo scontro le grandi nazioni di allora.

All’epoca la questione si è risolta con un accordo che aveva portato al disastro ecologico il grande continente polare e solo un misterioso intervento, qualcuno aveva parlato di alieni, aveva impedito l’olocausto nucleare.

Oggi, con i nuovi equilibri geostrategici e con la grande fame di energia, la questione si sta per riproporre, su scala ancora più grande: questa trasmissione è una bomba!


Quasi con timore la mia mano sfiora il tasto “play” : - Si stanno avvicinando. Sono delle grandi sagome scure… automi… no, no sembrano esoscheletri di qualche genere, non se ne distinguono i particolari… Non hanno voluto rispondere a nessun messaggio via radio.


Per cautela ho predisposto che dalla nostra astronave madre sia ritrasmesso il mio rapporto verso la Terra, nella speranza che qualcuno lo possa ricevere… -


E in quel momento le trasmissioni radio da Saturno erano bloccate dall’interposizione di Giove e del suo enorme campo magnetico.

Un rivolo di sudore ghiacciato sta scendendo lungo la mia schiena: - …l’habitat del modulo di sbarco è compromesso! E hanno appena lanciato dei missili verso l’Odyssey! Se qualcuno riceverà questa trasmissione… -


- Bene basta così. - La mano del dottor Floyd preme il tasto dello “stop” – Vedo che ha compiuto un’ottima opera ed è ora che ritorni sulla Terra. E’ un ragazzo in gamba, si trovi un posto tranquillo dove abitare, magari proprio in Africa, e metta su famiglia. Si dimentichi di questo viaggio e delle cose che ha visto o appreso. Da adesso in poi l’esito della missione del dottor Clarke non la riguarda più.


Tutto mi è chiaro, l'occhio rosso di HAL ha monitorato continuamente i progressi del mio lavoro e non ho neanche avuto il tempo di farmi una copia del documento.

Sono scortato lungo tutto il percorso del ritorno da persone della sicurezza. Silenziose e decisamente inquietanti.

Meglio scordare, certo, ma resta la preoccupazione di come verrà gestita questa nuova crisi e di quale scelta verrà operata, tra uno scempio ecologico planetario o un nuovo impulso verso un progresso basato su modelli di consumo crescente.

Purtroppo non posso ipotizzare una risposta e non mi rassicura per nulla il fatto di dover demandare la soluzione di un problema che coinvolge l'umanità intera, al Consiglio Nazionale dell’Astronautica, alla Wey-Land e a tutte le forze che si celano dietro quelle sigle.

In meno di ventiquattrore sono di nuovo sul treno verso New Mombasa.

Stesso paesaggio, che scorre dai finestrini, piccole isole di arenaria rossa nel mare della savana: sarei tentato di scendere al volo.

Stessa hostess, questa volta le chiederò il suo nome.

Si conclude così la mia breve odissea e la vera storia dell’ultimo viaggio del dottor Clarke.













(Racconto scritto nel mese di maggio 2008)

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