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Il Lupo


Sento il peso, nella tasca destra del giaccone invernale, quello di finta pelle, quello caldo non ostante la leggerezza delle sue fibre, sento il peso del flacone quasi vuoto che sto cercando di dimenticare.

Infilo la mano sinistra nella tasca trovando un fazzoletto sporco ormai secco, qualche centesimo che non ho avuto la pazienza di mettere nel portafogli e il biglietto della metropolitana che mi è costato fin troppo.

Sto per infilare l’altra mano in tasca, in quella più pesante, ma mi fermo prima ancora di pensare di farlo.

Sono una bilancia; una di quelle vecchie, con due braccia e due piattini. Da una parte il ticket della metropolitana, dall’altra il flacone.

A sinistra c’è quel biglietto preso ormai senza pensare di poter non pagare. Una volta… un tempo non sapevo nemmeno che forma avesse un biglietto della metropolitana. Fortunatamente non la prendo quasi mai. È sporca; ma scendere in quella latrina mi costa sempre troppo. Eppure lo faccio. Pago la responsabilità.

Nell’altra tasca il flacone semivuoto. L’ho preso quando ero ancora nervoso. Quando non stavo ancora camminando lungo il marciapiede ampio e umido del corso Kennedy, che dal centro, da casa mia, porta al mare, al porto, alla ferrovia. L’ho preso con l’intenzione chiara di svuotarmelo in gola e vivere di nuovo pericolosamente. L’ho preso quando la mia stessa gola non produceva le nuvolette di fumo che vedo perdersi davanti ai miei occhi. L’ho preso prima di entrare in metro, di pagare quel maledettissimo biglietto e di rendermi conto che ormai non sono più uno che vive pericolosamente.

Svolto a sinistra, lasciando dietro l’angolo le scale della stazione dalla quale sono emerso pochi attimi prima.

Mi ritrovo al cavalcavia di San Giorgio, quello vecchio che costruirono sulla ferrovia abbandonata che dalla zona industriale conduceva al porto.

Mi avvicino.

Da giovane vivevo in questo quartiere. Sono nato con una madre e un fratello maggiore nella zona popolare della città, dove la polizia ha paura di intervenire, dove le donne sole o sono prostitute oppure sono nate li. Il caso di mia madre, e non lo penso solo perché mi ha generato, non è esattamente il primo. Nacque in questo posto quando ancora c’era benessere, quando il porto turistico era pieno di barchette a vela e gli stranieri affollavano gli hotel sulla costa. La disgrazia che colpì tutta la città, distrusse la sua famiglia e lei fu costretta a prostituirsi. Così sono nato, benché non abbia grandi ricordi della mia breve infanzia.

Breve perché già a dieci anni andai a vivere in una stanza di quello che un tempo era l’Hotel Grecia, con mio fratello come padre. A dodici anni ero un abile borseggiatore e a quindici ero considerato il migliore.

Fu a causa di una di quelle guerre tra ragazzi, proprio contro quelli del San Filippo, che la conobbi. Ancora non avevo venti anni. Mio fratello era ancora vivo.

Arrivo al ponte e sento l’umidità provenire dal mare, l’odore avvolgente della salsedine. Mi guardo intorno senza vedere anima viva. Ricordo il passaggio che scende direttamente sui binari. Spero di non essere cresciuto troppo da non poterci più entrare. Lo cerco tra gli arbusti spinosi, pungendomi tagliandomi le mani.

Lo trovo.

La rete è ancora bucata, ma quasi si lacera il cappotto mentre attraverso il passaggio. I rovi rendono più difficile l’ingresso e io sono più grosso di un tempo.

Esco dal groviglio d’acciaio e legno che mi separava dalla mia infanzia. Sono completamente bagnato. Tutto è bagnato intorno a me e le pozzanghere sono sazie dopo la pioggia del pomeriggio. Qualche impercettibile sottile goccia sta ancora cadendo, ma me ne accorgo solo guardandone il riflesso nelle luci gialle dei lampioni.

Raggiungo i binari sul fondo di quella piccola valle costruita per il passaggio dei convogli e mi metto in marcia verso il porto, lasciandomi il ponte alle spalle.

È buio nel fosso, ma le luci della smisurata metropoli che ha mangiato la mia città, riflettendosi sulle nuvole e arrossendole, mi permettono di vedere dove metto i piedi e creano una sinistra atmosfera, che non fa parte dei miei ricordi dell’infanzia. All’epoca la città non era così illuminata né così grande. Non era proiettata verso il cielo come oggi, ma piuttosto verso il basso, verso i fossati delle ferrovie, la sabbia delle spiaggie, le stradine infestate dai ciclomotori e dalla spazzatura.

Oggi anche io vivo in alto. In un appartamento di lusso, privo del bagno, ma con il lavandino in modo da lavarsi, la mattina, senza dover ricorrere ai bagni condominali. Vivo con lei da sei anni, ed ero ovviamente convinto di conoscerla.

Ma non si conosce mai veramente una persona. Riprovo la rabbia che mi rodeva mentre scendevo i ventiquattro piani di ascensore che mi hanno portato qui. Rivivo l’odio che mi ha indotto ad uscire verso il passato. Sento di nuovo la voglia di prendere quelle pesantissime pillole.

Proseguo, stringendo nella mano il biglietto della metro, accartocciandolo in tasca e mescolandolo al fazzoletto rinsecchito.

Arrivo sotto il ponte della Marina. Percepisco nel buio un movimento. Vedo il puntino rosso di una sigaretta accesa. Ne sento l’odore nell’aria già acre per la salsedine e lo smog.

Accelero il passo sperando che mi lasci in pace.

Il ragazzo che esce dall’ombra avrà si e no vent’anni. È magrolino e maleodorante. Alla sua giacca sono state strappate le maniche e i suoi pantaloni sembrano essere usciti da un lavaggio sbagliato. I capelli grassi e sporchi, ricadendo sul nero del suo gilet, sembrano più biondi di quanto in realtà non siano.

«Non c’è bisogno che te lo dica, vero?» dice muovendo rapidamente le rosse labbra sottili.

La sua voce è sottile, acuta e fastidiosa.

Gli mostro la faccia di chi non immagina, ma so benissimo cosa vuole.

«Quanto hai con te?» mi chiede ancora.

«Niente, il resto di un biglietto della metro.» dico io con calma. So già cosa succederà; ero il migliore quando lo facevo io. Almeno una volta nella mia vita sono stato il più bravo.

Mette rapidamente una mano dietro la schiena, mostrando la peluria chiara delle ascelle sudate; scricchiolano gli stretti pantaloni mentre piega le gambe in posizione da cowboy. Non sa chi sono, non ne ha nemmeno idea.

In questo caso il passato mi invade con la rapidità di un treno, e non posso fare niente per scacciarlo. È vivere, o morire.

Prima ancora che lui porti a termine il suo movimento, il mio corpo e la mia mente vengono fusi da quella cosa che per tanti anni ho dovuto tenere a bada, dall’animale che ho cercato sempre di sopprimere, almeno da quando ho conosciuto lei. L’istinto si impadronisce di ogni fibra del mio corpo.

Mi chino sul ginocchio sinistro, ruotando sulla gamba che fa da perno e colpendo con tutta la mia forza, con la caviglia destra, le gambe del ragazzo. Lo sbilancio. Perde l’equilibro e cade sui binari. Il braccio destro è spezzato dal peso del suo stesso corpo, e la testa, che ha urtato il binario, sta già sanguinando.

Prima ancora che il dolore giunga alle sue cellule nervose sono in piedi e gli schiaccio la faccia sotto il mio stivale.

Il sangue gli sporca i capelli biondi, gocciolando poi sul metallo arrugginito del binario.

«Non c’è bisogno che te lo dica, vero?» grido, lasciando andare la rabbia, lasciandomi impossessare dall’animale represso. Gli do un calcio alla testa colpendolo con la punta della scarpa nell’occhio destro. Non si muoverà più.

Lo giro e estraggo dai suoi strettissimi pantaloni in fibra, la pistola con la quale avrebbe voluto uccidermi. Piccola, leggera e letale. Controllo il caricatore. Quanto tempo che non stringo tra le dita una pistola automatica!

Troppo.

Trenta colpi tutti pronti ad essere usati.

La infilo nel pantalone, proprio come la teneva lui, dietro la schiena.

Lo perquisisco e trovo un accendino e un pacchetto di sigarette. Le butto. Mi fanno schifo. Sono bagnate e puzzano di lui.

Lo controllo per bene e noto che ha un’amplificazione. Il suo braccio destro è parzialmente modificato. L’avambraccio è di metallo. Un lavoro fatto male e poco discreto. Ci sono spuntoni di acciaio su tutta la zona interessata dalla modifica. Leggo la marca, Uluru.

Ha anche un coltello nascosto nei calzini. Banale da parte tua Hal!

Mi rimetto in viaggio. La voglia di prendere quelle pillole aumenta.

Estraggo dalla tasca sinistra il biglietto per calmare l’istinto, per tornare alla razionalità.

«Questo non è nemmeno più un biglietto della metro!» affermo ad alta voce.

L’ho distrutto stringendolo nel palmo, giocherellando mentre camminavo. Questo mio vizio di tenere le mani sempre in tasca!

Sorrido ed estraggo la mano destra.

Al suo interno la capsula.

La apro.

Conto.

Tre.

Ne prendo una e la avvolgo nel fazzoletto sporco. Il resto lo ingoio; butto il flacone e mi incammino verso il porto, verso un quando preciso. Verso quando lei non c’era. Tra quindici minuti cominceranno a fare effetto.


L’effetto delle pasticche mi investe come poco prima aveva fatto l’odore della salsedine; mi turba più dell’istinto represso sguinzagliato dall’incontro con quel ragazzino.

La odio per avermi sottratto ad una vita che forse valeva la pena di essere vissuta. La odio perché adesso mi ci ha scaraventato dentro. Adesso che non posso più viverla.

Odio, si è questa la prima sensazione che mi invade. Poi, pian piano, fiducia, forza e sicurezza. Mi sento meglio, mi sento bene. Dietro le mie spalle sento la canna della pistola muoversi viscida come fosse una biscia.

Cammino guardando verso le luci del quartiere portuale. Prostitute, giocatori d’azzardo e mendicanti. Ladri e assassini. Questo era il mio mondo prima di quella guerra contro il San Lorenzo, contro quei super amplificati ragazzini dei quartieri bene. Lei era distante, in alto, irraggiungibile. Come posso dimenticare il suo sguardo disgustato mentre spaccavo la testa a quel maledetto figlio di papà. Usavo il suo stesso braccio di metallo per ucciderlo. Perdemmo e dovetti fuggire. Quel giorno la sconfitta non bruciò tanto come quegli occhi inorriditi.

La rividi due settimane dopo con i suoi compagni di scuola.

Lascio il percorso dei binari per camminare sulla sabbia. I piedi affondano, ma ancora di più la mia mente affonda nel passato, in quell’odore, in quel rumore rilassante delle onde che piano si posano sulla riva. La sabbia inizia ad aprirsi sotto di me e rischio di sprofondare fino alle ginocchia. Scappo verso il marciapiede della zona portuale. Esco dalla spiaggia proprio davanti al Sentinella, il vecchio VCS. È pieno di ragazzini.

L’insegna rossa e luminosa si muove sinuosa danzando verso me. Non voglio che mi tocchi, prenderei la scossa.

Entro.

La porta di vetro si apre automaticamente e mi trovo catapultato in una affollatissima sala giochi. È piena di stupidi, intenti a spendere i soldi rubati durante il pomeriggio.

Do retta all’odio che si era momentaneamente nascosto in un angolo del mio cervello; lo sento muoversi tra le sinapsi come un topo e raggiungere, dalla zona dietro l’orecchio, quella della fronte. Gratta sempre più forte contro le pareti del mio cranio.

Supero la sala giochi ed entro nel corridoio riservato ai maggiorenni. Guardo lo schermo all’ingresso. Tre sale su otto sono libere. Ne seleziono una toccando il grafico sullo schermo. Il prezzo è venticinque euro. Tiro fuori il portafoglio e pago inserendo la carta di credito. Non mi interessa se la mia maledettissima moglie lo verrà a sapere. Scelgo tra i volti delle ragazze che vedo apparire sullo schermo quella che più le somiglia. I suoi capelli castani, lunghi. I suoi occhi verdi, penetranti e sdegnanti.

Ecco.

Adesso so perché l’ho odiata tanto. Gli occhi che mi guardavano questa sera, prima di uscire di casa, mentre lei cercava una scusa per non essersi fatta viva tutto il giorno, mentre lei cercava una scusa per non amarmi più, mi ricordavano terribilmente quegli occhi disgustati che mi guardavano mentre uccidevo quell’anonimo omino della San Lorenzo.

Lo schermo mi chiede il tipo di fantasia e io so già cosa voglio. La seleziono e mi avvio soddisfatto verso la mia capsula. La apro ed entro.

Mi sbottono la camicia, in modo da avere spazio per infilare lo spinotto sul collo. Infilo gli occhiali neri e mi sdraio sul letto.

Nel buio appare un puntino verde intermittente. Diventano due, poi tre. Li vedo aumentare gradualmente mentre compare la scritta caricamento.

Quando la procedura termina, è come riaprire gli occhi, come svegliarsi dopo dieci anni di sonno. Sono per strada, in un vicolo buio. Mi nascondo perché so che lei sta per uscire.

Eccola. Sento la voce provenire da un portone. Sta salutando un amico. Scende i gradini che la portano in strada e la porta si richiude.

Siamo soli adesso.

Aspetto che mi passi davanti, poi all’improvviso, uscendo dal buio, mi metto dietro di lei e le faccio lo sgambetto. Cade a terra e le salto addosso. Riesco ad immobilizzarle le mani.

Sento l’eccitazione crescere mentre lei cerca di liberarsi della mia stretta, mentre si dimena.

La picchio con forza e abuso di lei finché non termina la simulazione. Qui non arrivano mai poliziotti.

È come svenire quando finisce il tempo a tua disposizione; dopo un minuto sei di nuovo nella capsula.

Tolgo lo spinotto ed esco. L’odio è appagato.

Attraverso la sala giochi ed esco di nuovo in strada.

Non so come mi ritrovai ad uscire con lei. Accadde proprio in questa spiaggia. Faceva caldo. Facevamo il bagno, io e lei. Era notte e noi eravamo nudi.

Fu proprio qui che la vidi per la prima volta.

Improvvisamente mi metto a correre. Attraverso la strada evitando una prostituta ferma sul marciapiede, riscaldandosi accanto ad una piccola fiamma che mi segue con lo sguardo, ondeggiando intimorita.

Corro nella sabbia fino ad entrare nel mare.

Immergo le gambe fin sopra il ginocchio. L’acqua è petrolio e mi sento come un uccello impregnato da quel nero acido.

Resto a lungo a bagno; chiudo gli occhi e immagino di stare con lei. Mi eccito.

La odio perché pensavo di conoscerla, ma in realtà non so chi sia. La odio perché pensavo che mi amasse, ma non sa nemmeno cosa significhi amare. La odio perché lei pensa di sapere chi sia io, ma non sa proprio un bel niente. Ha spento il telefono tutto il giorno per non essere rintracciata. Ho visto nel suo sguardo il disprezzo, ho visto che io le faccio schifo così come lei mi ha trasformato, così come lei pensa che io sia. Si dovrà ricredere.

Mi giro verso la spiaggia. L’effetto delle due pillole è quasi scomparso. Dovrò ingerire l’ultima.

Girandomi vedo sulla battigia un gruppo di ragazzi che mi osserva. Erano nella sala giochi.

«Vuoi uscire dall’acqua dottore?» mi grida uno.

Inizio a camminare verso di loro. L’acqua adesso mi arriva giusto alle ginocchia.

«Che ci vieni a fare sulla mia spiaggia, non sai che devi pagare per fare il bagno?» dice un altro, gesticolando furiosamente contro di me.

Avanzo.

«Sei sordo? Sto parlando con te dottore. Io lo so che razza di persone siete Voi. Ma non sperare di venire a fare l’eroe nel mio quartiere solo perché hai una carta di credito e una bella moglie che ti aspetta a casa». Parla scuotendo la testa, facendo ondeggiare la lunga cresta che parte dalla nuca per arrivare fino alla fronte. Il resto dei capelli sono rasati. Anche gli altri hanno acconciature strane e so che sono drogati perché non sembrano aver freddo con le loro canotte, mentre io, con il cappotto e i vestiti invernali sono gelato. Prima di avvicinarmi troppo a loro, caccio dalla tasca il fazzoletto dove ho conservato l’ultima pillola.

Li fisso.

«Ma questa è l’ultima volta che torni, vero ragazzi?» dice rivolgendosi ai compagni, cinque o sei, che annuiscono e ridacchiano. Ci sono due donne con loro. Vedo su ognuno di loro amplificazioni luccicare alla luce dei lampioni.

«Adesso noi accetteremo la tua offerta, poi, se non ci soddisferà, prenderemo anche qualche pezzo della tua faccia, in modo che quando la settimana prossima uscirai dall’ospedale, i tuoi colleghi capiranno che non è saggio andare al porto a fare le passeggiate, che sarebbe meglio per loro restare nei loro quartieri protetti, ai loro ventesimi piani, a godersi i soldi rubati che le vostre maledettissime aziende vi danno per procreare!» detto questo, il capo della banda si china per raccogliere una pesante spranga di ferro e si mette a correre. Grave errore venirmi incontro solo con un’arma da mischia. Mi fa capire che non possono sparare.

Con calma estraggo la pistola e velocemente, mirando alla gamba destra, faccio fuoco. Vedo la sua espressione rabbiosa trasformarsi in sorpresa mentre estraggo l’arma; poi spavento e in fine dolore.

A causa dello slancio rotola più volte nella sabbia, macchiandola del sangue che fuoriesce copioso dalla caviglia maciullata. Si ferma a pochi metri da me a pancia in su, con la testa accarezzata dalle onde.

Osservo gli altri, indecisi sul da farsi.

«Ho altri ventinove colpi in questa mia amica che sono ansiosi di correre incontro a chiunque voglia avvicinarsi» urlo mentre mi chino sul capobanda.

«Se non mi credete potete chiedere ad Hal, il vostro amico sdraiato sui binari verso nord, andate a vedere se vi risponde ancora!» li osservo mentre perquisisco il capo. La spranga è finita in acqua affondando. Loro sembrano scossi dalle mie parole. Probabilmente sanno di chi parlo, benché non si chiami necessariamente Hal il ventenne che ho ucciso poco prima.

Il capobanda ha solo pochi soldi.

Mi guarda, anzi, guarda la canna delle pistola puntata contro la sua testa. È ancora vivo e sveglio, benché il suo viso sia una maschera pallida di dolore e rabbia, piena di sabbia bagnata e alghe. Osservo le sue costose amplificazioni. La marca è la stessa, Uluru.

Capisco cosa significhi...

«Adesso lasciate che vi spieghi una cosa…» inizio a dire io, guardando prima la faccia del capo, poi rivolgendomi ai suoi compagni: «Non sono un dottore, non sono laureato e non ho nemmeno la licenza media. Sono nato qui, quindi questo quartiere è più mio che vostro. Ho un appartamento al ventesimo piano? Si, e forse non me lo sono nemmeno guadagnato da solo, ma la cosa non mi importa. Ho una moglie, una macchina, un lavandino nel soggiorno e un giaccone di pelle. Bene, sono miei. Non ho nessuna amplificazione perché non ho ancora abbastanza soldi, ma non dubitate che quando potrò della mia umanità resterà ben poco.

«Ma sapete, quando avevo dieci anni e valevo più di tutti voi messi insieme, quello che facevo lo facevo per me. Rubavo per vivere; uccidevo per sopravvivere. Non potevo certo farmi amplificare, eppure ero il migliore.

«Voi mi accusate di rubare. Voi, sottospecie di punk moderni, accusate la compagnia dove lavoro di rubare? Non posso darvi torto. Non so da dove provengano tutti i soldi, non so se sia legale tutto quello di cui si occupano, nemmeno so se facciano bene ad avere un esercito personale per tenere pulite le strade da ragazzi che potrebbero essere com’ero io un tempo. Ma su una cosa non sbagliano: non sbagliano nel riempire di loro prodotti dei pazzi come voi, per tenere alla lontana la gente per bene dal porto, dove arrivano e partono tutte le merci di cui la compagnia non va fiera. Fanno bene perché danno la possibilità a me di dimostrarvi che fare i ribelli con le amplificazioni delle compagnie a cui volete ribellarvi, non vi rende degni nemmeno di calpestare la sabbia dove io ho cagato quando avevo dieci anni. Quindi, miei cari ragazzi, non accetto le vostre ipocrite critiche e sputo sulle vostre false facce da punk.»

Ingerisco l’ultima pillola, sentendola subito fare effetto; mi giro verso il capobanda e gli sparo un colpo alla testa da distanza così ravvicinata che gli schizzi mi invadono il giaccone.

Poi mi volto, sorridendo con la faccia sporca di sangue e comincio a sparare all’impazzata verso la banda.

Stavano già scappando!

Sono tornato nel mio mondo, sono tornato in quel posto dove i colpi di pistola fanno meno notizia degli incidenti stradali. Sono tornato in quel momento della mia vita nel quale non ero niente, eppure mi sentivo qualcosa.

La pillola mi rende euforico. Rifaccio tutta la strada al contrario. Passo per il corpo del povero Hal, passo dal mio buco nella rete, fino alla stazione della metro. Salto le barrire per non pagare il biglietto. Corro ai treni e ne prendo uno al volo, mentre le porte si chiudono.

All’uscita mi volto un attimo, salutando definitivamente il mio passato.

Corro fuori dalla stazione e arrivo al mio palazzo. Salgo i ventiquattro piani di ascensore che mi portano all’appartamento pagato centoventunomila e cento euro, sette anni fa. Salgo senza preoccuparmi di nascondere la giacca sporca di sangue.

Entro.

Trovo lei seduta sul divano.

Mi guarda.

Il suo sguardo è ancora quello, ma c’è di più rispetto al momento in cui sono fuggito. C’è sorpresa, c’è interesse, c’è paura.

Facciamo l’amore.




Maggio 2007

Alessandro Maisto

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