Anime dannate










Un momento di calma è l’incrocio di mille storie personali

che condividono la pace di un istante.


Abu Mamga, filosofo africano








Le vie del signore saranno anche infinite,

ma si sono così ingarbugliate che non portano più da nessuna parte.


Michael James McDowell, 1951 – 2017, predicatore, Burlington, New Jersey






Seul

Siamo tutti anime dannate. Scartati, e precipitati quaggiù a boccheggiare fra i rifiuti, nella terra di mezzo fra il mondo dei vivi e l’inferno. Senza vie di fuga verso giorni migliori, colpevoli di essere troppi.

Sono circondato da una desolazione che sembra eterna, quando il mondo diventa senza speranza. Se mi fermassi a pensare, mi scoprirei troppo stanco per andare avanti, senza nessun posto dove andare. Ho il mio lavoro da fare, per fortuna. “Lotta o muori”, la legge della giungla è rimasta uguale da migliaia di anni, l’unica cosa che ancora abbiamo in comune con l’uptown, la nostra umanità che il progresso non riuscirà mai a toglierci.


Mancano ancora così tante ore alla chiusura, continuo ad alzare gli occhi verso il Lorentz ma le lancette sembrano paralizzate sulle 2243. Il condizionatore è spompato, nonostante Aida c’abbia messo le mani l’ennesima volta, e l’aria resta umida, fumosa e soffocante. Il neon del bancone continua a sfarfallare nervoso, e non so più che possa inventarmi per recuperarne un altro.

Mi passo la manica sulla fronte, tirando fiato, apro il cassetto della cassa, infilo la mano fra le carte e tiro fuori un’altra foglia. Comincio a masticarla assieme ai rimasugli dell’ultima. e la infilo in bocca assieme ai rimasugli dell’ultima. Sentirne il sapore fresco sul palato già mi concede momenti di sollievo. Torno a passare lo straccio sul bancone, strofinando per l’ennesima volta un legno che probabilmente non sarà mai più pulito.

Scivolo accanto ad Ice, sfioro il bicchiere, passo attorno al “pezzo”, che tiene sempre accanto a sé bene in vista, un cartello con una chiara scritta di non disturbare. Vado oltre e alzo gli occhi sui tavoli di fronte a me. Oggi Nadine è arrivata con una nuova amica, ancora un’altra, questa ha un impressionante tatuaggio underskin che gli sale fin sulla guancia. Quella sinapsi bruciata di Ack continua a fissare nel vuoto suo fratello Nack mentre gli parla, ho sempre voluto sapere cosa pensa di vedere davanti a sé, ma finché consuma e paga non voglio disturbarlo. Chi non consuma è Odhi, da quando ha parlato con Mick e si è seduto continua a fissare il CRT come se non avesse mai visto una cosa così vecchia.

Mi giro verso il sudamercano. Lui non si accorge della mia occhiata, o ignora la domanda che gli portano i miei occhi, Che diavolo gli hai venduto, Mick? Se ne sta in silenzio, nascosto nel suo solito tavolo, fuso nell’angolo buio del neon, e occupato ad osservare tanto la gente quando la finta schiuma della sua finta birra.


«Dammene un altro, Seul» sussurra Ice mentre gli passo di nuovo davanti. Il tono è basso, monotono, vuoto come i suoi occhi che sembrano guardare oltre il bicchiere che stanno fissando. La sua voce riesce a distogliermi dai miei pensieri. Non ha ancora bevuto niente.

«Che è, quello lì ti fa schifo? Bevi prima quello, poi ti faccio l’altro.»

«Ehi, Seul, ma a te che cazzo ti frega? Pago, lo sai? Non stare qui a rompere.»

«Non fare il cretino, Ice…»

«Portami un altro Black Gin, e lasciami in pace».


Taglia il discorso senza neanche ad alzare la testa, continuando a nel bicchiere che tiene in mano, come se stesse v’avesse perso qualcosa. Io rispondo qualche suono disarticolato, senza alcuna convinzione, non ho la minima voglia di stare qui a convincerlodi chissà che cosa. Lui dice solo «Senza ghiaccio».

Blatero un “sì”, quando sto già tirando giù un altro bicchiere, prendo il ghiaccio, ci ripenso, lo lascio a sciogliere nel lavandino, prendo la bottiglia di Gin dalla riserva; potrei anche scriverci il suo nome, su questa bottiglia, non sono in molti a potersela permettere. Rriempio il bicchiere e richiudo la bottiglia al suo posto. Un gin così forte con l’LSND in corpo dev’essere massacrante, ma Ice va così, sopporta, credo che sia quello che vuole. Ognuno ha i suoi demoni da affrontare.

«Tieni – gli lascio scivolare il bicchiere accanto all’altro – fosse la volta buona che ti viene a prendere, quel dannato diavolo che stai cercando».

Odhi

Torno a tenermi stretto il giubbotto attorno alla vita, cercando di smettere di battere i denti. Fa freddo, in questo posto, l’aria gelida arriva e si infila ovunque, ma sembra che non se accorga nessuno. Comunque cerco di guardarmi intorno il meno possibile, questo è il genere di posti in cui meno facce guardi e più possibilità hai di uscire; l’ho capito da come mi hanno guardato appena ho messo piedi qui dentro. Anche se sembrano uomini come me, non si sa mai cosa nascondano le loro maschere di gesso. Io ho tenuto gli occhi bassi anche quando parlavo con Mick.

Tengo gli occhi alti, ora, verso la televisione a muro. Anche lei è piena di menzogne, falsità, odio, ma da lì inchiodata nel muro non può toccarmi, sono al sicuro. È un antico modello a tubo catodico, di cui solo quaggiù se ne possono vedere, l’immagine è instabile, gracchiante, sporca, ma nonostante questo continua a lanciarmi violente accuse. Io incasso; non ho il coraggio di distogliere lo sguardo. Sono al minimo, non riuscirei a muovere un muscolo. L’effetto della mescalina è nella sua parte discendente, ma poco importa, sono riuscito ad arrivare qui, questo è l’importante.

Mi hanno seguito.

Sono riusciti a trovarmi. Li ho visti, alla finestra della casa dei vicini, ora ho capito perché erano giorni che non si facevano vedere. Devo sbrigarmi. “Sbrigati, e non riusciranno a prenderti.” Anche se sono dietro agli angoli, non oseranno avvicinarsi. Ho preso la mescalina, posso farcela. “Puoi farcela, ora sei più forte. Ora fai paura”.

Restano lontani.

Continuo a muovermi, attorno a me ci sono solo barboni disperati, sfogo per le bande, cani, abituati a prenderle, scappano squittendo per poi fermarsi e rimettersi a dormire, dove capita. Quaggiù ogni posto è uguale all’altro. Non c’è neanche il giorno e la notte, ormai anche i lampioni superstiti che funzionano ininterrottamente, fino alla morte.

Iniziano i brividi, devo sbrigarmi ad arrivare, mi avvolgo nella giacca. Mi sembra di camminare in un museo, pieno di fossili, ricordi di un passato. Tutto è morto, anche i vivi; aspettano, come un lampione che attende il momento di spegnersi, ogni giorno uguale a ieri.

Accelero il passo, so che mi stanno seguendo. Li vedo, affacciarsi dalle finestre sfatte, avvolti dalle coperte dimenticate agli angoli sporchi delle strade. Sono dappertutto; ma in fondo non m’importa, l’insegna del Rama è laggiù, luminosa, non oseranno avvicinarsi.

Inciampo.

Troppo in fretta, troppa dannata fretta. Rotolo, e già trovo il tempo di rimproverarmi, “Idiota, come al solito, controllati, stai attento, inutile, inutile”. Mi agito, per divincolarmi dai fantasmi che invece non mi hanno assalito. Mi guardo attorno, incredulo. Sono salvo.

Corri”.

Ricomincio a correre, guardo solo la mia meta, non voglio sapere altro. Ringrazio la mescalina, ce n’è ancora, la sento pompare nella testa. L’insegna si fa sempre più grande.

Salvo!


Ormai manca poco, fra poco comincerà a fare effetto l’exadrina che mi ha venduto Mick, saranno passati già… quanto?… Non importa, devo solo continuare a guardare il video, senza farmi distrarre dai suoi inganni, senza farmi toccare dalle sue parole. Fra poco l’exadrina mi darà l’energia di uscire, il coraggio di camminare là fuori, in mezzo a tutta quella gente, sono venuto per questo. Mick, come diavolo fai a trovarne di così buona?


Dietro di me è appena entrato il Diavolo. Lo vedo con la coda dell’occhio, è sottile, ha una cravatta metallica. Sento la puzza di zolfo nella sua voce, ma continuo a non distogliere lo sguardo dallo schermo. Fra poco arriverà il coraggio di passargli davanti e scappare.

Ice

Ruoto fra le dita il secondo bicchiere, sorseggiandolo continuamente mentre aspetto che il ghiaccio, nel primo, finisca di sciogliersi. Lentamente, molto lentamente, questo ghiaccio sporco lascia le sue fredde figure sulla superficie del gin; si allargano, iniziano a prendere forma. Assomigliano a una mappa, un paese, o forse il centro di una città.

Con un altro sorso, torno a sentire la voce della vecchia, giù nel Bangladesh. “Tutto tiene traccia del futuro”, diceva, e mi prese il bicchiere. “Basta saperlo vedere”.

Avevo vent’anni.

“Meresa… shudorko…”. Strascinava le parole, in una lingua che non avrei mai imparato più di tanto. “Morirai”, diceva, e “freddo”, o “solo”, si dice allo stesso modo. “Forse sì – risposi – ma sicuramente morirò dopo di te”.

Il ghiaccio sta per sciogliersi, inizia a diventare troppo complicato. Non sono ancora riuscito a trovarci la mia pace, dentro il bicchiere, neanche dopo che son tornato a casa. Tutta la morte di quel posto mi perseguita, a me, vivo, mentre quella vecchia morì con il sorriso sulle labbra, e quel sorriso sembra prendersi ancora gioco di me.

Quella voce che continua a tenermi in vita mi dice di girarmi, suona più lontana del solito, ma piego la testa oltre la spalla, verso l’entrata. Tu guarda chi cazzo è entrato, un damerino e due tipi e un sacco di bella roba sotto i vestiti. Deve esserci dietro qualcuno di grosso, a giudicare da come non si preoccupano neanche di non dare nell’occhio.

Beh, non sono fatti miei, almeno fino a che qualcuno non mi pagherà perché lo siano. Torno a guardare nel bicchiere.


Ancora niente. Mando giù l’ultimo lungo sorso, ma non mi basta, me ne serve un altro. Seul, un altro, cazzo. Grido. Non so come faccia quel diavolo di cinese a procurarsi del vero Gin qui a downtown, sa fare il suo lavoro, questo è certo. È anche vero che se lo fa pagare forse anche più di quanto lo pagherei nell’uptown, se solo lì facessero entrare uno come me.

Con il ghiaccio che finisce di scomparire, il bordo del bicchiere sembra allargarsi. Ora non c’è altro, le voci dietro le mie spalle mi arrivano soffocate, lontane, confuse. Mando giù un’altra compressa di LSND; l’effetto è immediato. Fra le pieghe della superficie vedo due pareti, due muri vicini, un corridoio invisibile, sottilissimo. Sto lì dentro, è notte, e sono solo. Fa freddo, ma il freddo viene da una ferita al fianco che non ho ancora, ma sento che già mi fa un male cane. Devo stare immobile, mi stanno cercando; non so chi siano, ma mi hanno seguito a Bangkok, Parigi, Pechino, fino a qui. Dove diavolo sono finito? Non so neanche dove stia, ma ormai non importa più, tutto si sta facendo buio. Grido, per disperazione, ma non mi sente più nessuno, neanche i miei inseguitori sanno dove sia finito.

Vedo sempre le stesse cose. Mi sembra di sentire l’eco della risata di quella vecchia. È solo una dannata suggestione, colpa di questa merda che prendo.

Con un gesto di rabbia colpisco il bicchiere, che finisce di rotolare in fondo al locale, spandendo l’alcool per il pavimento. Mi si riapre il locale in un attimo. Mi giro, per vedere da dove vengano le grida che sento.

Uno di quelli grossi sta puntando la pistola verso un tipo di mezz’età, ad un tavolo, che si è appena bevuto qualcosa da una boccetta, con la mano tremante. Il ragazzo sta ancora guardando lo schermo, sembra sudato, trema. Lo schermo è rotto, sembra che gli abbiano sparato. Allungo lentamente, molto lentamente, il braccio per prendere il mio ferro.

Tinta

Mi continuo a ricordare di questo posto prima che diventasse così. Si dice che il tempo e il progresso rovinino tutto, ma qualche volta le cose erano peggio, prima. Quando Seul e i suoi soci arrivarono qui, questi ruderi erano distrutti dalla guerra di bande, accartocciati su se stessi, e la calma era arrivata solo perché non era rimasto più niente da distruggere.


All’epoca era da poco che avevamo chiuso la stampa, io, Gringo, Iena, Macchietta e Pas, e qualche altro giornalista che non ho mai ricordato. La morte delle notizie stampate, con la chiusura del nostro giornale, mi aveva lasciato un vuoto, un vuoto che non poteva essere colmato dal tempo. Non mi sentivo più l’età per avere la voglia di ricominciare da capo, ero troppo vecchio per cambiare anche io. Non avevo molto da piangere, non avevo niente da perdere, il Rama aprì e cominciai a passare il mio tempo qui attorno, sentivo sulla pelle che qualcosa sarebbe successo. La mia curiosità valeva ben più del rischio di calare prima il sipario per una pallottola in fronte.


Mick ha messo piede qui dentro e non se n’è mai più andato, e nessuno mi toglierà mai dalla testa l’idea che, se questo posto è rimasto in piedi, c’è da ringraziare anche lui.

Arrivò proprio il giorno dopo che ammazzarono Koi. Seul era rimasto da solo, era seduto per terra davanti all’ingresso, le chiavi in mano, e continuava a guardare la porta; scartati dall’uptown, queste mura dovevano essere la loro vita, ma per due di loro erano già diventate una tomba.

Quella stessa sera entrò questo nero vestito di nero, con una bottiglia del peggior whiskey in mano, vuota. Lo vedevo da seduto bancone, riflesso nei frammenti residui di specchio, urtò tutti i tavoli sul suo commino, ondeggiando come se non li vedesse o non gli importasse affatto, fino a lasciarsi cadere al riparo del buio dell’angolo: aveva scelto il suo posto il primo momento che era entrato. La stessa sera arrivarono i primi ragazzi, quasi bambini, a comprare da lui. Mick vendeva ai ragazzi, e beveva “alla loro salute fottuta”. Non gli ho mai visto bere nient’altro che whiskey e birra, birra e whiskey. Prima, durante e soprattutto dopo aver venduto.

Forse non ha fatto nulla di speciale, ma da quando è arrivato lui questo posto l’hanno lasciato in pace. Piano piano la gente ha iniziato a sentirsi al sicuro. Nessuno qui entra con l’idea di distruggere.


L’orologio a muro segna le 2251, devo andare, il mio contatto è sempre puntuale. Mi alzo, rimetto a posto la sedia, mi infilo la giacca. Dalla tasca tiro fuori i soldi, sono solo i soldi necessari per pagare la bevuta, li lascio tintinnare sul bancone mentre passo. Seul neanche fa finta di contarli, passa lo straccio e se li fa cadere nella mano sinistra, e poi in tasca. Accenno un saluto, so che mi sente anche se non mi risponde.

Davanti all’uscita mi ricordo dove avevo già visto l’amica di Nadine: una foto su una freenews, mesi fa ormai. Nella foto stava dormendo, e non aveva quelle vene viola sulla guancia. Si è svegliata da sola da una braindance medica lunga tutta la sua vita. “La sua voglia di vivere è stata più forte della nostra scienza”, diceva un dottore dal video, “questo ci porta a dover ridisegnare i parametri di controllo per il bene della nazione”. Cazzate. Alla mia età non ci si crede più così tanto alla scienza.


Svoltando nel corridoio di uscita mi scontro con uomo magro, giacca e cravatta, uno stile che non c’entra niente con downtown. Neanche si è accorto di me, non ci si accorge di un vecchio, quando si del lavoro da fare. Lo seguono in due, più grossi e gonfi e con meno stile, loro sì mi scrutano un attimo da dietro gli occhiali.

Richiudo la porta.

Joy

È bellissima.

Mentre parla dei suoi sogni, della sua vita, e di come riuscirà a lasciarsi alle spalle questo schifo di posto, già guardano laggiù i suoi occhi. Brillano, e vedono tutto, sanno già tutto! Guardo nel suo sguardo, lascio che mi trasporti lontano, non sento più neanchele sue parole, lei è lì, nel futuro in cui si rispecchia l’azzurro di quesi occhi.

I suoi progetti sul futuro mi bruciano, da qualche parte dentro il petto fa male. Qualsiasi siano, io posso solo pensare al presente.

Raccolgo le noccioline nel pugno, e tante stingendole scivolano via nel piatto. Apro il palmo e le conto con lo sguardo. Questa è la mia vita, una manciata di tempo strappata con la forza. Lei ha tutto il piatto.

«Joy, tutto bene?» Sento il tono della sua voce, cambia, è preoccupato. Non so cosa stesse dicendo ma la sua voce mi richiama a lei.

«Sì…», inizio, ma mi mordo il labbro per non dover aggiungere altre parole. Lei allunga la mano, cerca la mia. Non parla, si rende conto. Stringe le dita.

«…non è niente, Nadi. Vai avanti. Davvero. È bello perdersi nei tuoi sogni, sono così vivi che riesco a scambiarli coi miei.» Stringo anche io, e le sorrido.

Muovo la mano e le ultime noccioline rotolano verso il piatto.

Scivola via l’amarezza, svanisce veloce come è arrivata, senza lasciare impronte; il mio tempo è troppo breve, un pugno di noccioline in un mare, troppo poche per darle in pasto all’invidia.

Questa è la mia mano, inutile stare a chiedersi perché non ne ho raccolte di più, meglio assaporarle tutte. Il mio secondo sorriso è più convincente.

Lei si allunga sul tavolo e mi bacia. «Domani ho deciso che non lavoro. Che vuoi fare?»

«…casa tua?» Azzardo.

«Cosa?»

«Sì, casa tua. Sono curiosa di vederla, di conoscere i tuoi amici.»

Nadine abbassa la voce. Lentamente diventa un filo. «Stiamo ospitando una persona… che… Sarebbe meglio che non vedessi, ecco.»

«Nadi, non ti preoccupare per me. Te l’ho detto, voglio vedere. Vedere tutto, non ha importanza cosa succede.» Mi fermo un attimo, poi le sorrido «…che vuoi che possa succedere?»

Già.

«Non, so, posso, posso chiederglielo. Non vorremmo tenerlo, ma c’è un amico di Maus che… » Si gira a guardare i tre che sono entrati, non so neanche come abbia fatto ad accorgersene. È l’istinto di vivere in strada, dicono, devi esserci cresciuto. Io non li avrei visti se non si fosse girata lei. Aver passato la vita in stasi non aiuta, in certi casi.

Aspetta che siano passati, poi mi prende per un braccio e mi trascina via. Lei non dice niente, così tengo la bocca chiusa e mi limito a farmi tirare, fra i tavoli, facendo il giro largo verso l’uscita. Quei tre vanno verso il tavolo dell’uomo che parla da solo.


A momenti inciampo in un tavolo, mi sento più eccitata che impaurita e continuo a voltarmi verso quella scena, finché non svoltiamo per il corridoio.

Tiro Nadine per il braccio, la faccio fermare e quando si gira, premo la mi bocca contro la sua. Abbiamo il muro alle spalle, e in questo momento voglio lei, non mi importa di quello che può succedere.

Lei in un primo momento è rigida, poi si scioglie in un attimo, mi stringe, le sue mani mi portano la pelle d’oca fin nei capelli, ci lasciamo andare al muro, la tengo stretta come se potessi tenerla con me per sempre.

All’improvviso uno sparo spezza l’aria. Per un attimo smettiamo di respirare, tutto sembra essersi bloccato, tutto è silenzioso, anche la televisione non si sente più. Nadine riprende a correre e mi tira con sé.

Sento l’adrenalina scorrere in corpo.

È bellissima.

Mick

Do un’occhiata alla bottiglia di finta birra. È quasi finita, ingollo l’ultimo sorso e la metto fra le altre. Mi mancherà, non penso di poterne chiedere un’altra, la situazione sembra farsi scottante; Seul è più nervoso del solito, continua a masticare una foglia dopo l’altra. La musica non mi fa sentire nulla, e non ho assolutamente voglia di farlo. Con le note dei Funk Rio tutto il mondo assume un colore meno disperato.


Mi chiedo se possa reggere un ritmo del genere, in effetti non l’ho mai visto masticare così in fretta. Poveraccio, il figlio l’ha lasciato nella guerra in Bangladesh, e la moglie nel letto di un altro, e proprio in quel momento nell’uptown era cambiata la moda della nouvelle cousine. Io continuo a non crederci, per quanto Tinta dica che è così che funziona l’uptown: “vivi solo finché vali”.

Infine, anche i suoi soci e amici l’hanno lasciato, dentro queste stesse mura.


Praticamente ho cominciato a spacciare qua dentro. Seul ha tirato fuori questo posto dal niente, non so neanche dove abbia rimediato tutta questa roba, un mese prima erano muri che cadevano a pezzi, e quando ci sono ripassato era un locale. Quel giorno avevo piazzato tutta la mia exadrina. Me l’aveva anche pagata profumatamente, D. Era contento, forse sapeva a chi venderla, o forse se la teneva tutta per lui. Lo trovai sgozzato come un maiale mezz’ora dopo, tirai fuori la bottiglia dal soprabito e vi lasciai affogare quello che sentivo iniziare a scavarmi dentro. Non so quanto tempo dopo, mi infilai qui, lasciandomi cadere proprio su questo angolo.

Non so perché non mi abbia mai cacciato, probabilmente ero uno dei pochi clienti che pagava. Ed è stato sempre pronto ad ubriacarmi, ogni volta che vendevo morte a un ragazzino, senza fare domande. E senza giudicare.

Ragazzini, come quello là in fondo, incantato da un televisore rotto. Meu Deus, è impressionante, avrà preso l’exadrina da mezz’ora, e ancora non gli fa effetto, chissà che razza di miscela gli starà correndo nelle vene.

Problemi suoi.

Credo.


Ack ha appena tirato giù mezza boccetta dell’adrenocromo che gli ho venduto; deve essere impazzito, o disperato.

No, pazzo lo è da sempre. Dovevo capire che la situazione si faceva pesante quando avevo ancora una bottiglia, e tenermi un po’ di birra invece di scolarla tutta. Ice si avvicina lentamente alla pistola, spera che non lo vedano, ma si muovono con troppa disinvoltura per non notare ciò che riesco a vedere anch’io.

Infatti.

Beh, è ora che tutti hanno un’arma in mano, che la situazione si fa davvero complicata. Poco male. Se una mano santa dovesse deviare un colpo per sbaglio, sarebbe la volta buona che me ne vado da questo schifo, ma solo il Signore deciderà la fine della mia vita, quando me la sarò meritata.


Uno degli scimmioni alza il braccio, spara il suo colpo dritto al ventre dell’hacker. Gli si squarcia la pancia, ne escono le budella, si allarga presto un lago di sangue.

Seul sfila il fucile dal bancone. Curioso, neanche sapevo che ne avesse uno.

Lo vedo urlare qualcosa, ha le pupille dilatate. La testa del killer salta in aria, e tiene sotto tiro il tipetto abbigliato; non credo sia così pazzo da far fuoco su un tipo del genere, ma recita bene la sua parte. Non so se stia bluffando, e forse neanche loro: i due sorridono, si scusano e se ne vanno, lasciandosi alle spalle un mazzo di contanti e un lago di sangue: qualcosa che nel loro mondo è chiamato “normale”.

Ack

Sono a terra, ho i secondi contati. Merda. L’adrenocromo continua a rilasciare adrenalina, il mio corpo non ci capisce più niente, non sa che farci e continua a tenermi lucido. Le mie budella sono sparse per il bar.

Quel fottuto damerino se ne sta andando via.

Seul sia avvicina. Visto da qua sotto, come sembra alto.

Mi sta aspirando il sangue, prima che me ne vada in giro per tutta la stanza.

Con il pavimento che balla così, devo star facendo un casino.

Dio, il dolore è insopportabile.

Seul, per favore.

Lasciami le mie budella.

Mi servono.

Sono vivo.

Mi senti?

Mick. Dio, Mick, sì.

Diglielo che sono vivo.

I miei occhi…

Togli quel bisturi.

Macché vitrei.

Te lo do io Più utile da morto che da vivo.

Lasciatemi almeno morire in pace.

Fa già buio.



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