La fabbrica abbandonata vicino all'aeroporto era particolarmente silenziosa in quel tardo pomeriggio assolato di Maggio. Quasi tutti i "neggher", che vi dimoravano insieme a noi in pianta stabile, erano stati reclutati dai Caporali prima che sorgesse l'alba. Quando cominciava la stagione estiva, il Po si riduceva a poco più di un rigagnolo paludoso e le gigantesche pompe auto adescanti che portavano l'acqua ai sistemi di raffreddamento delle centrali elettriche penzolavano allegramente all'aria. I parun di Padania, ridotti senza corrente industriale, erano costretti ad accantonare nei magazzini i sofisticati robot delle loro fabbrichett ed a ripiegare sulla vecchia manodopera salariata, costituita da braccia e gambe umane. Era una cosa così pittoresca che ci invidiava tutto il mondo: alta tecnologia "artigianale", chip griffati come prodotti d'alta moda, handmade software. Articoloni sull'Economist così sull'adattamento della Repubblica al contesto globale: la Padania era definita un mutante, un modello da seguire nella era della crisi energetica mondiale, il ritorno all'antico, forse un Medio Evo Prossimo venturo.  

Anche quel pomeriggio, come molti altri in passato, io ed il Master eravamo soliti ammirare, fumando sigarette Bossi e bevendo almeno una mezza dozzina di lattine a testa di birra Padania, gli ultimi aviojet suborbitali in partenza per chissà dove. Al tramonto riverberavano di un bel colore smeraldo, quasi fossero frammenti di fuochi artificiali ai sali di bario, gioielli magici persi da chissà quale angelo distratto nell'alta atmosfera. Erano quelli i momenti in cui provavo ciò che più potesse avvicinarsi ad una struggente infelice felicità. Una vaga tristezza nera, mista a malinconia, mi invadeva allora lentamente l'anima come una colata di olio dielettrico esausto ai policlorobisfenili.

Ma il Master alla fine ruttò. Era il suo modo per cambiare canale, come per dire "Ora basta, torniamo ai fatti nostri". Mi venne in mente per l'ennesima volta come oramai fossero diversi anni che conoscevo bene tutte le sue abitudini ma per il resto rimaneva un mistero ambulante, compreso il suo stesso nome. Sapevo solo che era che un terun di un'età imprecisata tra gli 80 ed i 90, rimasto tagliato fuori in Padania già da prima della secessione e sopravvissuto sia ai due pacchetti al giorno di sigarette nazionali Bossi, sia alle fibre di silicato di magnesio che ci svolazzano tutte attorno, provenienti dalle coibentazioni mai incapsulate della fabbrica abbandonata. "Genetica" era solito dire, quasi leggendomi il pensiero quando la mia mente si concentrava per risolvere il Suo Mistero. Poi mi fissava con due occhi più cerulei dei miei, fino quasi a costringermi a cambiare argomento.

Mi raccontava, allora, quasi per vendicarsi, di epoche incredibili, dove non c'erano Boiler né computer, ma telefilm chiamati "Happy Days" e cose chiamate cabine telefoniche e figurine Panini. Epoche dove il campionato di calcio si giocava in veri stadi e non nei bunker sotterranei interattivi e dove partite internazionali come Milan-Roma e Napoli-Inter non erano ancora diventati eventi politici. Gli anni 80 del ventesimo secolo, un'era così lontana nel tempo che stentavo a credere fosse mai esistita. Lo stavo comunque sempre a sentire, qualche volta divertendomi a tirare sassi contro dei vecchi barattoli arrugginiti, qualche volta annoiandomi, tra un sorso di birra Padania ed un altro, cercando di calmare il vulcano impazzito che avevo dentro il cranio. In giro si diceva che fosse ancora il miglior backupper in circolazione, il Re del Boiler, un Mito che sarebbe sopravvissuto senz'altro alla sua stessa morte. Secondo la mia opinione non solo era tutto vero: il Master era anche un genio assoluto. 
- Te ne vai in Giappone tre giorni, toccata e fuga, che dici? - disse ad un tratto ad occhi chiusi, quasi distrattamente, subito dopo aver ruttato di nuovo. Il vento del nord, ancora un poco frizzantino ma ammosciato dai cambiamenti climatici, gli scompigliava i radi capelli bianchi rimastigli.
- Che? - feci io, rimanendo con la lattina di birra Padania semivuota a mezz'aria. Mi ero appena inoltrato in quel sottile regno tra la sobrietà e l'ubriachezza. Oltre c'era il vomito, prima la sofferente coscienza del vivere: lì in mezzo c'era il Nirvana, la mia terra preferita.
- C'è da portare questo a qualcuno in Giappone - tirò fuori qualcosa avvolto in un piccolo pacchetto con un nastro isolante nero. Era tutto sporco di terra rossa, la fine e cancerogena essenza all'amianto della fabbrica abbandonata, casa nostra. Il Master era di poche parole. Diceva che le parole della vita era un numero N finito. Per cui parlava il meno possibile, per risparmiarle, in modo che raggiungere questo numero N, e dunque la morte, fosse un fenomeno dalla crescita entropica estremamente lenta. Teoria curiosa, ma io non replicavo mai. Forse era per questo che mi apprezzava. Non gli chiedevo mai molto, come, in verità, avevo poco da chiedere a chiunque.
- L'hai già trasfigurato? - chiesi.
- Non mi hai capito. Questo oggetto deve essere materialmente portato in Giappone -
Rimasi interdetto. In un primo momento avevo pensavo che con "Giappone" avesse inteso qualche posto del Boiler con indirizzo semantico di dominio JP. Invece lui intendeva Giappone Giappone.  
- Mi stai prendendo in giro?-

Io non avevo mai preso un aereo e non ero mai uscito dai confini della Padania in tutti i miei 23 anni di vita ad eccezione di una volta, quattro anni prima, quanto ero stato a Lugano con una tipa molto calda, al tempo del tentativo di Secessione del Canton Ticino dalla Svizzera dopo la crisi finanziaria mondiale che aveva mandato a picco i principali istituti bancari del Paese. Quello era stato il mio viaggio più lungo. M'ero divertito a giocare alla rivoluzione desistendo solo quando l'esercito della Confederazione aveva cominciato a spararci addosso per davvero e la mia compagna d'avventura aveva perso due dita alla mano sinistra. Rho, Monza, Sesto San Giovanni e la Fabbrica erano stati fino ad allora il mio perimetro vitale.
Con la mente, però, spaziavo il boiler come un ghepardo nella savana.
Con la mente ero libero.
Con la mente l'umanità era la mia nazione e la mia patria il mondo intero.
- Parlo seriamente. Devi farmi questo favore, guagliò. E' semplice, ma non chiedermi di più: meno sai meglio è. Non è comunque un oggetto illegale. Niente droghe o cose pericolose. E' solo un po' riservato. Ti ho già fatto il biglietto con la All Nippon Airways per domani -
- Ma che dici? Domani? Ma se io non ho nemmeno il passaporto! Dove vuoi che vada! - cominciai a dubitare definitivamente che fosse uno scherzo dalla sua espressione accigliata. Quel suo debole inarcamento di un sopracciglio bianco, che sembrava svettare come un ghiacciaio estinto delle Alpi su una fronte ricoperta da macchie di eczema della pelle, era l'emblema della serietà.
- Te l'ho già rimediato io da tempo - tossì, sottolineando la parola "rimediato". Tirò fuori dalla sua tasca della mimetica color kaki dell'esercito svizzero una placca magnetica DNA con l'ologramma del sole delle alpi -  Non è un passaporto falso. E' proprio il tuo. Anche per il visto è tutto a posto. Ho ancora qualche amico sia alle Guardie Padane che all'Ambasciata del Giappone - il Master era sconcertante nel tirare fuori conigli da cappelli a cilindri come quello. Capivo alla Prefettura, ma amici all'Ambasciata del Giappone! Eccentrico, come minimo. Fosse stato un'altra persona avrei tirato fuori il coltello che uno zingaro mi aveva dato in cambio di un rocchetto di rame. Quando non capivo diventavo nervoso. Ma lui era il Master, il sindaco della Fabbrica, il Re del boiler. Forse l'unica persona al mondo che rispettavo. Anzi, dirò di più, anche se non l'avrei ammesso neanche sotto tortura: l'unica persona al mondo cui volevo bene. Quindi lo presi sul serio.
- Master, mi irriti con queste stronzate del tipo servizi segreti - dissi. Ero eccitato, io in Giappone. Però! Nel Boiler, vi ero stato diverse volte. Era un "must" per chiunque volesse avere un minimo di familiarità con Realtà Uno, quasi un rito di iniziazione alla globalizzazione. Avevo fatto all'amore con gli AVA di alcune giapponesine (chi lo sa se lo erano davvero), passeggiato per Ginza, visitato i templi di Kyoto, quelli enigmatici di Nikko con le famose tre saru, che non vedevano, non sentivano e non parlavano. Ma era tutto finto. O meglio, più che finto, era una Realtà diversa. Nel Boiler c'erano le idee delle cose, non le cose vere, un mondo platonico. Viaggiare era ancora un'emozione insostituibile, un privilegio costoso che, in un Paese isolato e autarchico come la Padania, toccava a pochi, persino ai più ricchi, e che, del resto, ne facevano volentieri a meno. Qualsiasi cosa ci fosse sotto, qualsiasi cosa ci fosse in quel pacchetto, perché il Master non volesse che fosse spedito in Pacco Raccomandato piuttosto che portato a mano, non me ne importava niente. Mi aprii subito un'altra birra, rischiando di sconfinare nella terra del vomito.
- Ho le mie ragioni - rispose - Allora, ci vuoi andare o no? -
Lo fissai con sufficienza. Sapeva che non avrei rifiutato.
- Mi mandi là con un jet-suborbitale? - gli chiesi.
- Per chi mi hai preso, per Bill Gates? Linee tradizionali della compagnia ANA, ho detto -
- Scusa, ma chi è Bill Gates? - feci io. Era un nome non nuovo ma non riuscivo a ricordare dove l'avessi già sentito.
Lui si limitò a ridacchiare senza rispondere e tornò alla sua birra scuotendo la testa. Lasciai perdere. 
- A chi devo consegnare l'oggetto? - non chiesi nient'altro né volli sapere altro. 
- Verranno a prenderti all'aeroporto di Narita degli intermediari. Ti identificheranno e ti porteranno dal destinatario. Tu non dovrai altro che consegnargli l'oggetto. A lui e solo a lui, ricorda. Questo è importante - mi disse il nome, signor Masashi Fujimori. Memorizzai rapidamente.
 - Ora va a comprarti degli abiti decenti. Ripulisciti, che fai schifo. Questo è il tuo budget. Cambialo in nuovi yen alla Malpensa prima di partire. Puoi tenerti il resto - mi allungò un mucchio di leghe a cambio variabile con gli euro. Erano davvero un sacco di soldi in contanti, arrotolati in un elastico vulcanizzato. Non riuscii neanche a valutare quanti fossero.
- Sbrigati. Non hai troppo tempo - concluse.
- E va bene - il cielo mi aspettava. Avevamo finito entrambi le sigarette e le birre ed io non ero ancora sufficientemente ubriaco.

Nonostante mi fidassi del Master, per lo meno fino ad un certo livello di fiducia, cercai di saggiare al tatto l'oggetto. Era leggerissimo e rettangolare, probabilmente di plastica. Cercai di immaginarmi cosa fosse, tirando ad indovinare come in uno di quei giochi che si vedevano in certi quiz nel Boiler, dove facevano concorrere e lottare tra loro i neggher per la residenza o l'espulsione. Alla fine lasciai perdere. Quando feci, però, passare la borsa sotto il rilevatore all'aeroporto ero sicuro che si sarebbero attivati tutti gli allarmi della Malpensa. Invece non successe niente. Alla dogana la Guardia Padana controllò il mio passaporto confrontandolo col DNA preso da un campione di grasso superficiale della mia fronte.
- Marco Zimmermann, residente in Via Roma SNC a Milano -disse un giovanotto della mia stessa età. Aveva un foulard verde attorno al collo e la medaglia al petto di Figlio del Po della Gioventù Bossiana.
- Confermo - dissi. Ero vestito da tipo sportivo, una tuta dell'Adidas gialla e quella borsa da ginnastica a tracolla. Nient'altro. L'orgoglio della miseria.
- A Milano non è mai esistita una Via Roma. E' la via virtuale, quella dove risiedono i senzatetto - disse lui con spregio.
- Eh già - dissi, garbato - Solo a Milano vi risiedono circa cinque milioni di persone -
- Che vai a fare in Giappone? -  
- A cercare lavoro - dissi dietro consiglio del Master. La cosa era verosimile visto che da tempo oramai il Sol Levante aveva da tempo aperto ai gaijin a causa dell'elevata denatalazzizazione. Al ritorno in patria, avrei raccontato una balla qualunque, del tipo che mi avevano cacciato.
- Non tornare più, parassita - mi fece restituendomi il passaporto. Non replicai alla provocazione. Passai avanti, invece, eccitato. Dopo una breve attesa, entrai in un vero aereo per la prima volta in vita mia. Peccato che non avevo trovato posto al finestrino, ero finito al corridoio. Il Master mi aveva prenotato il corridoio perché, diceva, ci si poteva alzare per andare al bagno ad orinare senza scavalcare corpi dormienti. Ma chissenefrega, mica ero un vecchiaccio come lui. E poi io avrei voluto vedere il cielo dall'alto. Ero deluso. Accanto a me, comunque, s'era seduta una bella ragazza giapponese.
Aveva i capelli neri raccolti a treccia e dei begli occhi a mandorla, una bocca rossa di fragola ed un seno bello grosso che ballonzolò all'atto di sistemarsi la cintura di sicurezza. Era splendida, nel suo modo di fare: aveva la sicurezza della cittadina globale. Mi sorrise.
- E' la prima volta che prendo l'aereo - le dissi, non immaginando che conoscesse l'italiano alla perfezione.
- Non ti preoccupare. Non è niente di particolare - mi rispose in un perfetto accento lumbard , quello ufficiale che insegnavano ai bambini alle scuole del Boiler. Ci volle un attimo per attaccare bottone mentre l'aereo della ANA si preparava a lasciare definitivamente Milano, sorvolandone la baraccopoli estesa fino alle prime palme che avevano trovato dimora sulla riva settentrionale di un Po assai stitico. Mi accorsi che tremavo tutto per l'eccitazione e che già le tenevo la mano.
Poi, dopo che l'aereo aveva preso quota ed il mio stomaco s'era stabilizzato, mi disse di chiamarsi Shino, di avere 22 anni ma di essere già alla sua terza esperienza del tipo "Goethe alla scoperta del mondo". Francia, Regno Unito, Germania, Terronia e Padania, queste le tappe. Trovava, in particolare, la Padania assai romantica, un paese curioso, autarchico ed anarchico allo stesso tempo, arretrato ma furbo, indifferente, patetico nel suo respingere la globalizzazione delle culture. Per questo, diceva, a suo modo, era affascinante. C'era un'aria di inversione temporale, di decadenza malinconica che andava in contro tendenza al frenetico evolversi del progresso senza regole della maggior parte del resto del mondo.
Peccato non avesse avuto tempo di visitare la mia fabbrica abbandonata.
Mi disse poi che era una studentessa di lingue e letterature romanze e che viveva di transazioni a tempo perso. Spostava dati da una parte all'altra del Boiler. La versione legale del Backupper, insomma. Mi chiese poi di me. Io le dissi quello che mi aveva consigliato di dire il Master, ripetendolo come un pappagallo ammaestrato, ossia che andavo a cercare lavoro in Giappone, un lavoro qualsiasi andava bene. Le dissi che avevo un indirizzo (falso) in tasca, un ristorante padano a Chiba, un posto dove poter cominciare, quasi da subito, a lavorare. Lavapiatti e canzoni lombarde suonate tra i tavoli dei clienti con chitarra classica o fisarmonica.  
Non doveva essersela bevuta molto anche perché, stranamente, non ero stato molto convincente nel dire balle, come ero solito. Forse quei begli occhi mi avevano un po' confuso, non lo so, ma non mi chiese altro. Mi fece, invece, fare a cambio di posto. Ammirai così il cielo e le nuvole in basso lontane chissà quanto e rimasi là, di fronte a quello spettacolo, per ore ed ore senza mai staccare gli occhi dal finestrino. In fondo ero contento per non aver preso un jet-suborbitale: dalla stratosfera certi particolari non sarebbero stati visibili. La mia anima, ora, si estendeva all'infinito pendendosi nella vastità del globo: come erano piccoli i problemi degli uomini visti dall'alto. Avrei voluto restare appiccicato al finestrino per sempre. Fui riportato alla realtà dal pranzo. Shino mi sorrise spiegando come dovevo fare per chiedere correttamente altro caffè, ossia porgere tutto il vassoio alla hostess e non il solo bicchiere vuoto. Quel rito semplice mi ricordava una familiarità con le cose che avevo dimenticato o che, forse, non avevo mai posseduto.
Mangiammo con gusto e facemmo poi a gara a rubare le piccole bottiglie di vino australiano dalla dispensa. Era bello ubriacarsi a 8000 metri da terra, con Shino accanto a me, che sembrava totalmente a suo agio con l'alcool a differenza di quanto si diceva al riguardo sulle popolazioni asiatiche. Ridendo mi accompagnò poi al piccolo WC dell'aereo. Feci altre conoscenze nel breve tragitto. Un imprenditore lumbard che si presentò salutandomi con una bottiglietta in mano. Un distinto signore giapponese, invece, mi fece un inchino di scusa dopo avermi pestato un piede. Dopo essere tornati a sedere nei nostri posti, Shino mi indicò il sole che stava per tramontare, oltre le nubi della Russia centrale. Tra poco avrebbero chiuso le finestrelle e spento le luci per la notte. Ad un tratto mi fissò teneramente negli occhi e mi quasi persi in lei. Avrei voluto baciarla ma mi trattenni nel farlo un istante di troppo. Mi accorsi di aver perso il treno. In fondo era nella mia natura.
Si ritrasse da me chiudendo gli occhi e, subito dopo, una piccola lacrima le uscì da una palpebra. Feci finta di niente, sentendomi strano.
Mi addormentai nel cercare una risposta a mille domande che non sapevo ancora porre.
Mi svegliai con una voglia di orinare grande così, mista ad una depressione post sbornia ed ad un enorme mal di testa, quando eravamo ormai arrivati a sorvolare Narita.

 

Ero in Giappone, i miei piedi stavano solcando la terra dell'Imperatore. Mi divisi da Shino alla dogana, dopo qualche lungo silenzio angosciante. Lei andava con i giapponesi io con i gaijin. C'eravamo ripromessi di prendere un cappuccino appena fuori. Sapevo che era una balla e che non l'avrei rivista mai più. Le sfiorai quindi la mano velocemente per cercare un ultimo contatto pentendomi amaramente per non averla mai nemmeno baciata. Vidi il suo corpo flessuoso perdersi nella moltitudine di un popolo ordinato al ritorno nel suo paese, provando una strana malinconia. Persi molto più tempo degli altri stranieri per le pratiche burocratiche. A causa delle conseguenze della guerra di secessione e della mancata ratifica di tutte le principali convenzioni internazionali in materia di diritti umani, la Padania era rimasto l'unico paese d'Europa, oltre all'inquietante Repubblica Bielorussa, che necessitava del visto consolare per entrare nel Sol Levante. L'imprenditore lumbard che avevo salutato sull'aereo attaccò bottone, al riguardo, nell'attesa.
- Ha visto, giovanotto? - fece. Era ancora ubriaco - i Terroni passano per primi perché sono rimasti furbescamente in Europa, e noi qui a far la fila come dei neggher. Si rende conto? -
Scossi le spalle, indifferente. Cercai invece di rintracciare Shino in mezzo alla gente senza trovarla.
Poi andai al controllo bagagli. Mi perquisirono e mi aprirono la piccola borsa che avevo a mano. Vollero vedere il biglietto. Il traduttore elettronico parlava in un lumbard così strano da essere al limite del comico. Quando il solerte poliziotto doganale giapponese trovò il pacchetto, lo fece dapprima passare sotto il naso elettronico per rilevare la presenza di qualche droga od esplosivo. Dopo l'esito negativo, mi chiese cosa fosse. Il Master non mi aveva dato istruzioni precise al riguardo ma mi fidavo ancora di lui, per cui, per ingannare l'imbarazzo gli dissi senza esitare.
- Lo apra pure - 
Con un tuffo al cuore ed una certa soddisfazione mista ad un po' di ansia lo vidi mentre lo apriva con quei suoi guanti bianchi ed immacolati. Il solerte poliziotto scartò l'involucro senza trovarvi niente. Mi venne un colpo! Per diana! Non c'era niente dentro! Era un pacchetto di carta straccia arrotolata! Non era possibile! Mi sentii il sudore freddo raggiungermi la nuca. Un lampo viola mi illuminò il cervello. Shino! Shino m'aveva fottuto, era stata lei, sicuro! Doveva averlo aperto quando ero andato al cesso o quando dormivo!
Fissandomi strano, il poliziotto mi fece richiudere il bagaglio, senza dirmi altro, congedandomi. Doveva essere stato strano scartare un involucro vuoto, ma era tutto regolare ed a lui, evidentemente, bastava così. I gaijin erano eccentrici. Sporchi ed eccentrici. Portare un pezzo di carta in Giappone non era reato.
Entrai, con un groppo in gola, in Giappone. Ed adesso? Cercai di razionalizzare la cosa. Controllai, solo per banale scrupolo, la borsa per verificare se ci fosse un enigmatico oggetto finito casualmente al suo interno. Niente! Mi sentivo come il Re dei Coglioni, fregato da una giapponesina ambulante ed ora nella merda fino al collo. Che cosa avrei fatto?

 

Superai il varco della dogana mimetizzandomi come un elefante nella savana in mezzo ad un nugolo di giapponesi frenetici e rientranti in patria. Mi venne l'idea di cosa fare appena incrociai l'imprenditore dell'aereo.
- Allora giovanotto, pare che l'abbiamo fatta - disse, riconoscendomi.
Io gli misi la mano sulla spalla fingendo alla vaga di essere suo accompagnatore proprio quando due inquietanti uomini, vestiti di nero e con gli occhiali da sole, sventolarono all'uscita un enorme cartello con su scritto un " Mr. Zimmermann" verde elettrico.
- Ci facciamo una birra giapponese? - dissi prendendolo sotto braccio, passando proprio sotto il naso dei due gorilla insospettiti. Giocavo sul fatto che quei tizi, chiunque fossero, si aspettavano un uomo solo, non una coppia di gaijin stralunata dal lungo viaggio e dai troppi misteriosi kanji luminosi. Era una mossa un po' debole, ma lì per lì non m'era venuto altro in mente.
- Giovanotto - disse lui - se bevo ancora un altro sorso, vomito addosso al mio cliente. Deve rilevare la mia fabbrica di lamiere zincate. Non ho più soldi per pagare l'energia per farla andare avanti. Che mondo di merda! -
- Come la capisco - dissi io salutandolo al volo, appena fuori visuale degli uomini in nero. Forse era andata bene. Forse il Master non gli aveva fornito la mia fotografia. Mi diressi verso il treno per Ueno, che avevo preso un paio di volte nel Boiler, ma con la coda dell'occhio vidi un po' di movimento alle mie spalle. Qualcuno mi stava seguendo. Non se l'erano bevuta. Accelerai il passo, zigzagando tra la moltitudine orientale che entrava ed usciva dai tunnel della stazione. Saltai il tornello dei biglietti così velocemente che nessuno si rese conto della cosa.

Scesi la rampa mobile a due a due quasi travolgendo una coppia di turisti americani che mi lanciarono degli insulti alle spalle.

Ero fortunato. Il treno stava per partire. Mi infilai dentro proprio in tempo, appena un istante prima che le porte si richiudessero. Ecco, ora ero perso nella grande metropoli. Incrociai gli sguardi indifferenti della gente che lentamente si ritraeva da me. Non dovevo avere un aspetto rassicurante: un gaijin ansimante.

Mentre il treno procedeva velocemente (avevo preso il diretto), cercai di riflettere sul da farsi. Avevo agito istintivamente, ma non sentivo rimorsi. Ero certo che qualunque cosa ci fosse stata in quel pacchetto, non averla consegnata ai due scagnozzi simil yakuza avesse innescato una serie di guai potenziali. Non potevo nemmeno andare dalla polizia a denunciare un furto, mi veniva da ridere, visto che non sapevo nemmeno cosa m'era stato rubato.      

Avrei dovuto chiamare il Master per cercar consiglio ma mi vergognavo al solo pensiero. Avevo fallito, tradito il compito affidatomi. Un fiasco. Io, che non avevo mai sbagliato in vita mia. Mi spediva in Giappone per consegnare un banale pacchetto e non ero riuscito a fare neanche quello. Me lo ero fatto rubare dalla prima Sailor Moon che mi era capitava a tiro.

Seduto tra la gente sulle poltroncine interattive della metropolitana di Tokyo, tirai fuori il pacchetto dalla borsa e ci ragionai su. Me lo girai tra le mani attentamente. Ora era diventato un solo involucro di carta, ancora sporca della sacra terra di fabbrica. C'era solo una cosa da fare. Rintracciare Shino, in qualsiasi modo, a qualsiasi prezzo e farsi ridare il maltolto. Avevo già in mente un piano, in fondo era semplice. Io ero un backupper. Il migliore in circolazione. 

 

Uscii dalla stazione di Ueno dopo aver pagato il biglietto all'apposito ufficio di correzione giustificandomi con la balla meno credibile del mondo, ossia che l'avevo perso. Pagai una multa salatissima senza fiatare e persi altro tempo per cercare un taxi disposto a portarmi ad un Hotel qualunque, diverso, comunque, da quello che il Master mi aveva prenotato a Milano. Trovai un cortese tassista cinese che mi suggerì, a gesti ed entusiasta, il Talismane Hotel, pattuendo la tariffa a cottimo, senza tassametro. Accettai senza esitare sospettando che prendesse una percentuale per ogni cliente che vi portava. Per me andava bene.

Mentre il tassista guidava lento nell'ingorgo del traffico di Tokyo cercai di rilassarmi fumando una sigaretta e contemplando la città dal finestrino. Dopo l'avvento della civiltà del Boiler, Tokyo era collassata in se stessa. Ora che la gente aveva tutto ciò che voleva a Realtà Uno, a Realtà Zero era rimasto lo scheletro dei sogni precedenti: i sushi bar dove vendevano le famose trance di tonno crudo preparate geneticamente, ed i locali Hyper Pachinko gestiti da coreani e cinesi, che erano ormai diventati le etnie dominanti dopo che il paese aveva aperto all'immigrazione.    

Per le strade c'erano diversi altri gaijin, per lo più americani, russi ed indiani, oramai nipponizzati ed integrati dalla cultura dominante.

Quasi non mi accorsi che eravamo ormai già arrivati al Talismane Hotel, un grattacielo che, anche in mezzo agli altri, faceva venire le vertigini per quanto era alto. Pagai il tassista ed entrai aspettandomi di trovare gli uomini in nero che volevano il pacchetto. Invece non c'era nessuno a parte un robot androide donna che mi accolse benevolmente con un inchino. Trovai una camera al diciassettesimo piano pagandola un occhio della testa e scelsi di rimanervi una sola notte. Una graziosa ragazza indiana, una hostess dell'albergo, insistette per portarmi la leggera borsa mentre mi accompagnava e non volle nemmeno la mancia, ma ammiccò a qualcosa, forse ad una ipotetica prestazione sessuale a richiesta, che feci finta di ignorare. La camera era piccola ma confortante. Accesi subito la TV: a quell'ora dava quiz su quiz, corsi di cucina, partite di baseball, servizi sui pericolosi iceberg alla deriva, sull'avvistamento di una fantomatica balena nel Pacifico forse l'ultima ancora non estinta, sui telegiornali sulla guerra in Pakistan.

Girando i canali, trovai persino un curioso servizio sulle truppe giapponesi dell'ONU stanziate da vent'anni sulla "striscia di Orte", il confine smilitarizzato tra la Padania e la Terronia. Riconobbi l'arrugginito casello autostradale dell'ex autostrada del sole, crivellato di buchi di proiettile e ricoperto da vegetazione spontanea, relitto di un'epoca breve, ipocrita e, soprattutto, sorprendentemente violenta, che aveva spezzato in due una penisola già sfasciata dalla corruzione e dal supercrack finanziario del 32. Una vicenda iniziata come una commedia e finita in tragedia. Una giovane e graziosa soldatessa posava per una foto davanti al relitto di un carro armato del vecchio esercito italiano facendo il gesto della vittoria. Disse qualcosa, forse salutava la famiglia o il ragazzo. Lasciai perdere e la spensi.

Il frigo era pieno di superalcolici e ne approfittai a man bassa contemplando la città dall'alto, un interminabile fila di palazzi e grattacieli senza fine, oltre l'orizzonte, con migliaia di luci rosse lampeggianti per segnalare la loro posizione agli aviojet suborbitali in atterraggio. Era un'immagine ipnotica e bellissima al tempo stesso. Era il futuro come non l'avevo mai vissuto direttamente.   

Passò quasi un'ora nella quale lottai per non dormire cercando di far crescere il livello di alcool nel sangue. Arrivò poi la pioggia, lenta ed insistente che prese l'aspetto di sbarre di una prigione, come in una poesia di Baudelaire. Bastava.

Mi sentivo giusto ed allora decisi di agire. Purtroppo l'Hotel era economico e non aveva PWT in stanza, per cui fui costretto a salire all'ultimo piano, dove dietro la piscina ed il centro massaggi thai, c'era il Punto Wireless di Trasfigurazione. Un inserviente molto sexy e quasi in topless mi fece accomodare in una poltroncina vuota, sfiorandomi la patta mentre mi allacciava la cintura. L'ambiente era piacevolmente ovattato e silenzioso, pulito soprattutto, a differenza di quanto trovavo di solito a Milano, dove dovevo sedermi su lettini incrostati da chewing gum e scarabocchiati con i pennarelli interattivi. Girando la testa notai che c'erano almeno una ventina di persone nella stanza insieme a me, ognuno perso a vagare nel proprio mondo virtuale. 

A causa del jet lag, mi trovai all'inizio un po' a disagio con il sistema di accesso giapponese. Ma la sbornia, alla fine prese il sopravvento, scaricandomi tutti gli autocondizionamenti, le ansie e le angosce. Ero tornato il ghepardo nella savana, l'animale terrestre più veloce del mondo e mi misi a caccia. Avevo scommesso con me stesso che avrei trovato l'indirizzo di casa di Shino in meno di otto minuti. Accesi un count down: ce ne misi sei e mezzo.

 

Il sistema di protezione dati aeroportuale di Narita era composto da ben quattro sbarramenti interattivi. Il più semplice era a copertura della privacy, il più forte era implementato ai fini antiterroristici.

Era impossibile superarli. A Realtà Uno avevano l'aspetto di quattro muri di potenziale concentrici sovrapposti, alti come un Everest.

Se li avessi contrastati, cercando di violarli con la sola forza di volontà ne sarei rimasto schiacciato, annichilito dal principio di azione-reazione. In questi casi la forza era contro producente. Mi ricordai, allora, degli insegnamenti del Master. Qualche drittata, ovviamente, la sapevo già da prima di conoscerlo, ma ciò che avevo imparato, o meglio affinato, da lui era semplicemente geniale.

Come superare un muro di potenziale, osservato e controllato costantemente, interattivo, che replica ad ogni tuo tentativo di penetrazione in modo violento ed indiscriminato? Un bel dilemma, diceva lui, ma proviamo a ragionare. E là che si scolava la prima birra.

"Una volta il presidente Pertini - "chi?" avevo chiesto io, "lascia stare, una persona dei miei tempi", aveva risposto lui - era in visita a Berlino Ovest e disse davanti al muro: "guardate quegli uccelli: sono liberi di passare da una parte all'altra e noi uomini, invece, non possiamo farlo perché siamo divisi". Un bel discorso. Ma anche utile ai nostri fini. Nessuno controlla gli uccelli che passano sopra i muri. Ecco, questo è il modo per passare un muro di potenziale: trasformarsi in uccelli".

Così mi misi all'opera. Chiaramente la metafora andava interpretata. Il modo per diventare un uccello era di trasfigurarsi in una coda di buca di potenziale quantistica. In base alla meccanica quantistica, diceva il Master, chiunque vada a sbattere addosso ad un muro qualsiasi ha una probabilità statistica, bassissima, ma non nulla, di passarci attraverso intatto. Questo fatto è reale. E noi non facciamo altro che truccare un po' i dati. L'impossibile probabilità a Realtà Zero diventa difficile probabilità, ma non impossibile, a Realtà Uno.

Ecco perché, usando un particolare Permutatore che avevo sempre con me nella mia borsa di Eta Beta del mio AVA a R1, assunsi la conformazione quantica. Ero diventato una Funzione di Schroedinger, obbediente al principio di indeterminazione di Heisemberg. Le regole della meccanica classica, oramai, per me, non valevano più. Nessuna barriera di potenziale, per quanto alta e reattiva, poteva competere con i fantasmi del microcosmo. "La meccanica quantistica ", diceva il Master, "è qualcosa di talmente sconcertante da assomigliare alla magia nera. E noi, moderni Cagliostro, siamo in grado di evocarne le potenze infernali ed usarle a nostro vantaggio".

Mi ritrovai al di là di tutti e quattro i muri i meno di un secondo. Non avevo scavalcato i muri. Vi ero semplicemente passato attraverso sfruttando l'Effetto Tunnel.

Mi materializzai in un ambiente strano, uno spazio illimitato di Escher, un Blog di sistema, dove l'universo era costituito da un unico aereo con la scala a terra ed il portello aperto, avvolto nel nulla. Era un iperaereo. Dovevo cercare quello specifico, ossia quello del mio volo. Invertii il flusso temporale. Vidi cambiare la sagoma e la carlinga dell'aereo fino a trovare quello dell'ANA sulla tratta Milano-Tokyo Narita: il mio. Vi salii senza indugio.

Era impressionante. Era un momento del volo imprigionato per sempre. Riconobbi l'imprenditore e le facce di alcuni passeggeri. La Fotografia Trasfigurata in diorama doveva essere stata fatta quando tutti eravamo seduti, proprio alla partenza. Mi avvicinai al mio posto e trovai me stesso, seduto con la faccia imbambolata verso il finestrino, da far tenerezza. Toccandomi, trovai tutti i miei dati, compreso quelli relativi al mio soggiorno a Tokyo, che avevo cambiato. C'erano anche altre notizie, una vera e propria biografia ed un rapporto informativo delle Guardie Padane.

Interessante: alcune cose non le sapevo neanche io.

Milanese da cinque generazioni, cognome originario di una famiglia austriaca di origini nobili proveniente dall'Austria nel diciottesimo secolo. Pensa te, pure origini nobili adesso! L'avesse saputo il Master!

Genitori defunti all'età di otto anni. Eh già, entrambi per intossicazione cronica da metalli pesanti nelle fabbriche dove entrambi lavoravano come schiavi, grazie a voi, miei cari.

Cresciuto al collegio militare del Quarto Reggimento Informatico "Brianza" delle Guardie Padane: congedato a diciannove anni e degradato da Sottotenente a Guardia Semplice, con disonore. Vero, un giorno ve la racconterò questa bella storia.

Attualmente si pensa svolga attività di pirateria informatica in piccoli reati di scarso rilievo. Continuate a pensarla così, bamboccioni!

Possibili interessi anarco insurrezionalisti. Che ridere! Mi interessavo di politica come di merletti in seta. Che idioti! Lasciai stare e toccai Shino, di fronte a me. Ero lì per lei. Resistetti alla tentazione di farlo proprio sullo stupendo seno.

Incredibile. Shino Nagano, 22 anni, era la figlia, già orfana di madre, di un dipendente di una multinazionale informatica, la New Kaizen Inc. e che, forse caduto in disgrazia per qualcosa, s'era suicidato. C'erano altre informazioni, ma non erano decrittabili così su due piedi, poiché altamente secretate. Strano! Le avrei potute anche tirar fuori, ma avrei perso troppo tempo e quel posto non era sicuro. Poteva venire un Cerbero da un momento all'altro a sfidarmi ed in un Blog chiuso come quello avrei avuto vita difficile. L'indirizzo comunque c'era e lo memorizzai. Quello mi interessava. Prima di andar via, diedi un ultimo sguardo a quegli stupendi occhi a mandorla e alla mia faccia d'ebete così straordinariamente ingenua. "Perché mi hai tradito, amore?" , mi venne da pensare prima di lasciare quel folle momento di una vita vissuta. Perplesso uscii dal Blog di sistema. Sbaglio od avevo usato la parola "amore"?

 

Quando mi risvegliai, nella sala PWT dell'ultimo piano del Talismane Hotel, per prima cosa capii che dovevo squagliarmela subito. L'istinto od un sesto senso mi urlarono ad alta voce che non dovevo passare la notte lì. Avevo lasciato già troppe tracce e quella gente sapeva il fatto suo. Tornai alla mia stanza con un po' di apprensione. I corridoi dell'Hotel erano lunghi, bui, e pieni di telecamere. Non a caso trovai la mia stanza con la posta accostata. Capii che qualcuno era stato lì... o c'era ancora? Sentii un vago rumore dietro la porta, un fruscio. Dopo un secondo stavo già correndo per i corridoi a gambe levate prendendo le scale, scendendole a due a due.

Arrivato in prossimità dell'androne, ripresi fiato, maledicendo le tossiche sigarette Bossi. Ero affamato ed assetato. Diciassette piani a scendere di corsa erano pur sempre diciassette piani. Davanti a me, nella hall, c'erano due uomini, con occhiali da sole ed auricolare, vestiti in nero come la notte di Tokyo, che ignoravano le smorfie affettuose della ragazze accompagnatrici. Erano gli uomini dell'aeroporto. Ero stato fortunato. Una questione di secondi. Stavano perlustrando l'albergo per trovarmi. Cazzo, come facevo ad uscire da lì, ora? Li fissai attentamente. Erano piantonati là come cani da guardia. Riflettei. La scala antincendio. Avrei fatto scattare l'allarme di tutto il grattacielo ma chi se ne frega. Non ci pensai neppure un secondo, risalii fino al primo piano ed aprii la porta d'emergenza. Una sirena infernale fece scattare l'allarme. Corsi a perdifiato le scale a scendere, esterne al grattacielo, fino a raggiungere terra e perdermi in uno stretto vicolo buio nella notte di Tokyo.

 

Per fortuna avevo portato con me soldi e passaporto, una buona e vecchia abitudine. Tenevo il portafoglio sempre a contatto di chiappa, abituato alle periferie della Grande Milano. Gli uomini della Yakuza o quello che erano avrebbero trovato solo mutande, neanche di candeggina, e calzini nella mia borsa a tracolla, nonché un vuoto pezzo di carta chiuso con il nastro adesivo.

Tokyo mi proteggeva, ora, con la sua moltitudine di abitanti nella notte piovosa, misteriosa e brulicante come una città aliena. Zigzagando per le strade mi ritrovai a combattere con le tossine del sonno. Ero molto stanco ma non mi fidavo a cercare un altro hoteru. Dovevo però riposarmi e trovare una soluzione. Dormire ed arrivare a domani, questo era l'imput. Avevo anche fame, ma il sonno era più impellente. Vicino ad un mercato cinese, trovai un piccolo bivacco di homeless. S'erano costruiti delle vere e proprie case di cartone. I Clochard giapponesi erano affascinanti nella loro dignità e pulizia. Nessuno di loro chiedeva l'elemosina. Presi due o tre cartoni e mi costruii velocemente un lettino poco a fianco. Nessuno badò a me. Nell'addormentarmi sentii un uomo cantare un antichissima canzone. La pioggia cullò il mio sonno.

 

Una poliziotta mi svegliò alle 7 del mattino con un colpo di manganello al fianco, fissandomi come fossi un insetto raro. Non dovevo avere un bell'aspetto. Ci misi un po' a ricordarmi che cosa stessi facendo lì, dove fossi. Mi alzai facendo un inchino. Ero rimasto solo. Il villaggio improvvisato era sparito e c'era un sole così. Con un vago senso di imbarazzo mormorai delle scuse alla poliziotta che cominciò a fare dei gesti. Decisi che era il caso di allontanarmi subito. Lo feci senza fretta, anche se la poliziotta continuò a dirmi qualcosa alle spalle, sembrando poi disinteressarsi di me.

Il guaio era che con quella tuta gialla Adidas davo troppo nell'occhio. Decisi prima di tutto di rifocillarmi ad un Mr. Kentucky, mangiando cosce di pollo sintetico fritto e darmi una ripulita per quel che era possibile andandomi a comprare dei nuovi vestiti ad uno shopping center: Jeans interattivi ed una maglietta dei Chicago Bulls extra large che mi andava però un po' stretta. Ora stavo quasi a posto. Era il caso di fare una visita alla mia cara amica Shino per chiedere spiegazioni.

 

Nuova stazione della prefettura di Omijia, il mio primo mattino in Giappone. Erano le nove e quaranta ed i pendolari andavano e venivano da chissà dove. Un gruppo di bambini, in perfetta divisa scolastica, mi fissarono e risero. Li sentii chiamarmi "Micheal", chissà perché. Era tutto così fantastico. E soprattutto era reale. Ora che me ne rendevo conto, capivo in che razza di mondo nuovo ero immerso.

Come erano affascinanti i giapponesi nel loro modo di concepire la vita. Il dovere prima di tutto. Mai un'esitazione, mai un dubbio. Per certi versi li invidiavo. Il pensiero di Shino, invece, mi riportava ogni tanto alla realtà. Scesi alla stazione di Saitama City. Le case lì erano basse, diverse dai soliti grattacieli mega galattici. La gente andava e veniva con delle biciclette fosforescenti.

E' l'ora, Shino. Prova a spiegarmi i misteri, per favore, pensai.

Camminai per una mezzora ancora seguendo il piccolo tonton che avevo appena comprato e che riportava le istruzioni per l'uso anche nell'italiano ticinese. Arrivai in un piccolo comprensorio di piccoli villini familiari in legno.

Una donna anziana in kimono mi fissò come avesse visto un alieno rintanandosi nella sua casa. Evidentemente non c'erano molti gaijin da quelle parti.

Trovai il villino dove doveva risiedere Shino accanto ad un Canale costeggiato da una folta vegetazione. Ora dovevo aspettare. Mi accesi una sigaretta cercando di svuotare la mente da tutte le ansie. Mi sedetti nell'erba alta, bagnata ancora della pioggia del giorno precedente.

 

CHIU CHIU CHIU

Il verso che facevano le cicale giapponesi sembrava una risata rivolta al genere umano ed alle sue pretese di capire le cose della vita.

M'ero appisolato di nuovo nell'erba alta, colpa del jet lag. Scacciai alcuni animali esotici che mi stavano scorrazzando sulla maglietta dei Chicago Bulls. Doveva essere forse l'ora di pranzo. 

Avevo una sete terribile e la sensazione strana di trovarmi fuori posto. Ricordai tutto non senza un certo sgomento. Mi tirai su con i gomiti. Guarda un po', ero stato fortunato. Proprio in quel mentre c'era una certa giapponesina che stava tornando a casa. Guidava una bicicletta di quelle che avevo visto fino a due giorni prima solo nel Boiler. L'espressione sul viso era quella di una sfinge. Decisi che era il caso di agire. Avevo atteso troppo.

Mi presentai davanti a lei apparendo dall'erba bagnata come un demone dell'acqua. La sentii emettere un grido mentre fermavo la bicicletta con le mie mani. I nostri visi si trovarono fronte a fronte alla distanza di un centimetro. Avrei potuto baciarla. Avrei dovuto baciarla.
- Ci si rivede! - feci.
- Marco San... -
- Eh, mi sa che hai una cosa che mi appartiene. Forse è finita per sbaglio nel tuo bagaglio a mano, sull'aereo. Succede! - iniziai.
- Marco San, vieni dentro per favore - Disse scendendo dalla bicicletta ed aprendo il cancelletto. Rimasi stupito. Mi ero aspettato proteste, negazioni, minacce di chiamare la polizia. Invece mi invitò a casa. La sentii gridare qualcosa in giapponese. Una donna anziana comparve sulla porta.
- Marco san, questa è obasan, mia nonna - la signora mi guardò con uno sguardo severo e preoccupato.
- Kon ni chi wa - dissi. Era l'unica delle due o tre espressioni giapponesi che conoscevo.
- Togliti le scarpe, per favore -

 

Mi distesi su un divano minuscolo tenendone fuori i piedi nudi. Ero avvolto in un accappatoio, indossato dopo una doccia calda durata un quarto d'ora. Mi stava strettissimo ma ero in perfetto relax non sapendo se preoccuparmi o rallegrarmi della nuova situazione. M'ero aspettato di combattere, minacciare, ricattare, molestare, invece stavo lì, trattato come un pascià.
Sentii scostare la porta di legno e vidi apparire Shino con solo una maglietta e dei pantaloncini stretti ed attillati addosso. Qualcosa in me si risvegliò da dopo la doccia.
- Ti sei rilassato? - portava con se un'abbondante pranzo, servito su un vassoio. C'erano persino due tavolette di cioccolato americano, spesse quasi un centimetro.
- Non a sufficienza. Mancavi tu nella doccia -
- Spiritoso - disse lei, arrossendo. Chissà perché, il vedere quelle gote diventare come due arance mi attizzò ancora di più il mio istinto animalesco. Cercai di concentrarmi sul pranzo.
Prima mi avventai sul succo di pompelmo, poi cominciai a mangiare. Vidi lei che mi guardava con interesse.
- Ti piace? -

- Buono - Era una specie di frittata ripiena. L'avevo mangiata una volta solo, ovviamente virtualmente e nel Boiler. Non mi ricordavo come si chiamasse. Ero un po' in difficoltà con le bacchette a Realtà Zero, ma stavo imparando in fretta.

- L'ho cucinato io. Si chiama okonomyaki -

- Avevo una fame.... -

- Allora lo mangi perché hai fame, non perché ti piace! -

Sembrava essersi arrabbiata sul serio.

- Ehi, che dici? E' buono. Ma tu non mangi? - d'un tratto rimasi immobile.

Lei intuì subito e prese un po' del mio cibo ingurgitandolo.

- Non l'ho drogato od avvelenato, se è questo che pensi, Marco San. Ho semplicemente già pranzato fuori - prese poi una delle due tavolette di cioccolato, la scartò e cominciò a mangiare anche quella, guardandomi severa.

- Perché dovrei pensarlo in fondo? Mi hai solo cacciato in mezzo ad un mare di guai -

Lei si fece seria.

- Ciò che ti ho sottratto è questo - tirò fuori un sacchetto verde in pelle, lo aprì e vi estrasse qualcosa, ponendolo sul tavolino.

Lo fissai con incredulità con le bacchette a mezz'aria. Ecco cos'era, dunque. 

- Non sapevi cosa era? -

- No -

Ne avevo visto già una da qualche parte, forse ai tempi dell'accademia, sotto una teca, in un museo militare. Era una bobina, no...una cassetta a nastro magnetico. Tecnologia del ventesimo secolo. Reperti da collezione.

- Una cassetta? Dico bene? -

- Sì. Questo è un programma per i computer del secolo ventesimo. Ne hai mai sentito parlare? Commodore 64 -

- Sì, roba da collezione. Ma che ci devono fare? -

- Qui c'è registrato un videogame -

- Cosa? -

- Un videogame. Così si chiamava a quei tempi. Un gioco: Black Castle, il Castello Nero -

- Davvero? -

- E' l'unico programma rimasto, probabilmente, al mondo di questo gioco per Commodore 64, Marco San -

Fantastico. Un reperto da collezione. Ecco perché era così prezioso. La mia vita valeva questo. Al cambio, era quotata poco evidentemente.

- Ma non è solo una banale cassetta da collezione... -

- Perché? -

Si alzò.

- Vestiti. Dobbiamo incontrare una persona. Mi accompagnerai, In fondo è bene che venga anche tu -

- Shino. Lo sai che il mio Master mi aveva affidato un compito? Io dovevo consegnare quell'oggetto, questa cassetta, a quei signori. Tu hai interferito ed ora mi corrono dietro. Chi sei? Chi sono loro? Chi ha ragione e chi ha torto in tutta questa storia? -

- Torto, ragione... non sai come le cose sono difficili, Marco San in questo paese. A volte fare il proprio dovere è un obbligo morale. A volte non farlo, pure. Noi giapponesi lottiamo contro le nostre stesse contraddizioni -

- Non capisco, Shino - la filosofia era troppo a quell'ora del primo pomeriggio.

- Sì, ho interferito. Ma in un modo che non puoi immaginare -

- Eh? - cominciavo ad essere stanco dei continui indovinelli della ragazza - Ciccia, per favore, fai luce -

- E' una storia molto lunga - disse - dovevo impedire che quella cassetta capitasse nelle mani della persona a cui la stavi portando. Per questo sono salita nel tuo stesso aereo a Milano e te la ho sottratta -

- Che persona? -

- Mio zio, Marco San. Il figlio di Obasan, fratello di haha, mia madre, colui che ha fatto suicidare mio padre. Masashi Fujimori San -

Mi accasciai nuovamente sul divano, sfinito.

- Oh, mio Dio! Ma perché non capisco un cazzo? Una banale cassetta. Nipoti e zie, ma che c'entro in tutto questo? Che ci faccio qui? -

- Vestiti, Marco San. Ho preso appuntamento con lui, davanti alla Superarena di Saitama City. Un luogo pubblico. Tutti i nodi verranno al pettine -

- Ma perché tutta questa manfrina? -

- Devo trattare -

- Trattare? Ma perché, allora, vuoi che venga con te? -

- Troppi perché! Per proteggerti Marco San, ovvio! Da quando ti ho sottratto la cassetta ho messo la tua vita in pericolo. Sono stata tormentata dal rimorso e dal pensiero che ti avessero catturato e fatto del male. Ma non potevo fare altrimenti! E' un miracolo che tu sia giunto sano e salvo qui da me. Devo chiarire ora la tua innocenza affinché tu abbia qualche possibilità di tornare vivo al tuo paese. Contavo di farlo ugualmente, da sola, questo pomeriggio, ma ora sono contenta che sei qui: sarà più facile. Nel frattempo devo ottenere quello che voglio e questa cassetta è l'unico mezzo per farlo -

- Fare cosa? -

- Un baratto -

- Fantastico! Un baratto! -

- Mi dispiace -

- Ma che cosa devi barattare? -

- Ti prego -

Fissai il vassoio. Presi la tavoletta di cioccolato rimasta e me la misi in tasca. Odiavo essere tagliato fuori, non essere io a condurre le danze. 

 

Saitama Superarena.

I capelli di Shino si svolgevano al vento creato dai mulinelli tra i grattacieli. Con quel vestito bianco, dove sporgeva armonioso il suo seno stupendo, sembrava una dea ancestrale uscita dai meandri della città, dall'inconscio collettivo di un'epoca. Il futuro incarnato nella Dea dell'Oriente, Toyo onna ni.

Davanti a noi, controllato a distanza da guardie del corpo, c'era un distinto signore sui sessant'anni che, nonostante il caldo primaverile, portava un pesante completo scuro. Fissò prima Shino e poi me, con l'enigmatico sguardo tipico degli asiatici.

Cominciarono a parlare in giapponese stretto. Avvertii un tono stizzito nell'uomo ed uno pre-isterico in Shino.

- Marco San - disse Shino in modo formale - ho spiegato a zio san la situazione. Lo zio prega di porgere le sue scuse a te ed a Master San -

- Prego - feci io, preoccupato. Conoscendo il Master si sarebbe messo a ridere di tutti quei convenevoli. Lui avrebbe replicato come faceva di solito, con il rumore di un anello di una lattina di birra che veniva aperta.      

- Lo zio dice che ora puoi andare e tornare nel tuo paese, Marco San. E' tutto a posto. Il tuo dovere è stato compiuto - fece lei con un cenno con la testa. Gli occhi le brillavano. Era come se si sgravasse di un peso.

- Puoi dire a tuo zio che non me ne vado senza di te e senza aver capito la situazione -

- Marco san, ti prego ... è tutto a posto - fece lei, ansiosa - Va -

- Che cosa è tutto a posto, Shino? Che cosa devi barattare con quella cassetta? -

- Marco san....-

- Io da qui non mi smuovo -

Shino, esasperata, disse qualcosa allo zio.

L'uomo fece un cenno ad un suo scagnozzo, poco lontano. Quest'ultimo gli portò qualcosa, un piccolo oggetto. Fujimori San lo prese stizzito. Un suono deforme invase l'aria offendendoci le orecchie. L'uomo, allora, lo aiutò con gesti rapidi, preoccupato.

- Itaria go - disse.

Era un traduttore universale ultima genesi. Solo nel boiler era possibile parlare con qualcuno in un'altra lingua, traducendo all'istante. In Giappone erano sempre dieci anni avanti.

- Signor Zimmermann - fece l'uomo con voce elettrica - la transazione è completata. Abbiamo ottenuto l'oggetto che volevamo. L'equivoco è stato chiarito. Può salutare il Signor Master e tornare nel suo paese. La sua missione è compiuta. Prego -

- La ringrazio, signor Fujimori - feci - Ma arrivato a questo punto, mi capisce, devo avere delle garanzie -

- Non ci sono garanzie, signor Zimmermann, ad eccezione di quelle che le ho appena detto. Vada, prego. Questa cosa non le riguarda -

- Non me ne vado, Signor Fujimori. Qui sono e qui resto. Apprezzo la sua cortesia. Ma ho avuto un compito e devo avere la certezza che sia portato a termine -

- Marco San! - fece Shino, allarmata. Mi fissò con uno sguardo carico di apprensione e rabbia allo stesso tempo - Ti prego! -

- Shino cara, in questa cosa, voglio vederci chiaro. Ed io non mi schiodo da qui di un millimetro. Diglielo pure a lor signori - 

Li vidi allora confabulare ansiosamente, al limite dell'isteria. Le guardie del corpo si guardarono intorno, allarmate, pronte ad intervenire. Ad un certo punto, Shino tirò fuori il sacchetto verde, rassegnata. Fujimori annuì e fece un cenno con il mento ad uno dei suoi. Questo si allontanò, andò in direzione di un auto nera, una Mitsubishi Generation, parcheggiata a venti metri sulla piazza principale. Tirò fuori un ragazzo sui dodici anni, in perfetta divisa scolastica, accompagnandolo al luogo della riunione. Quando lo vide, Shino sembrò illuminarsi di luce propria.

- Akira! - fece. Il ragazzo sorrise e fece per corrergli dietro ma uno degli uomini di Fujimori lo fermò.

Il Boss allora porse la mano avanti.

- Chi è quel ragazzo? - chiesi. Che storia strana c'era sotto?

- Akira, il mio fratellino - fece lei, speranzosa in viso. Guardò il sacchetto verde tra le sue mani come fosse la cosa più preziosa della sua vita.

- Che è 'sta storia, uhé? Uno scambio? -

- Marco San! Mio zio non ha mai avuto figli maschi, solo una femmina ed anche...ecco, disonorata - abbassò gli occhi - Questa è la sua grande tragedia. Ha preteso, allora, che mio fratellino, Akira, fosse allevato da lui, nel palazzo dorato della sua casa Yakuza, ad Osaka, quale futuro capo della famiglia. Mio padre, uomo buono ma debole, non ha potuto né voluto opporsi. Per questo si è suicidato -

- Davvero? -

- Lavoravo per mio zio in transazioni illegali, Marco San. Sono anche io una Yakuza ni onna ni hito, una donna mafiosa. Ho scoperto, dall'interno, a cosa mio zio teneva più di tutto, più del mio fratellino. Questa cassetta. Per questo ho organizzato un piano per sottrargliela. Per poter avere il mio fratellino con me, farlo tornare con la sua famiglia, fuori dalle regole della Yakuza -

- Ma perché quella cassetta vale più di tuo fratello? - non riuscivo a capire. Lei scosse la testa. Fece qualche passo avanti in direzione dello zio.
"Eccolo là", pensai, "Adesso scoppia il bordello".

Si avvicinò allo zio, porgendo il sacchetto. Ancora una volta lo zio fece un cenno con il mento ad un suo scagnozzo. Questo glielo sfilò dalle mani e lo porse al suo capo.

Quando lo estrasse, fu come se il mondo congelasse per un istante. Vidi l'espressione severa dello zio che teneva al cielo un'enigmatica tavoletta di cioccolata americana. Stavo per scoppiare a ridere.

Shino urlò, girandosi verso di me.

Ehm, ehm, tossicchiai. Alzai una mano al cielo, attirando l'attenzione di tutti.

- La cassetta ce la ho io, state calmi, signori! -

- Marco san! - urlò Shino, stringendomi con forza rabbiosa la maglietta - La cassetta! Ti prego! -

- Signor Zimmermann - fece di nuovo Fujimori con la voce metallica - lei non ha idea di chi io sia. L'ignoranza può aiutarla fino ad un certo punto. Mi renda subito quell'oggetto o non tornerà mai vivo al suo paese! -

Vidi gli uomini avvicinarsi a me, mentre Shino cominciò a frugarmi tra le tasche, indiavolata.

- Dammela! Dammela! - le lacrime le sgorgavano copiose dagli occhi. Fu l'espressione del ragazzino a convincermi, carica di delusione, universale nella suo modo di essere totalmente infelice, inutile da tradurre.

- E lasciami! - feci a Shino. Alzai di nuovo la mano al cielo, sospirando. Nel modo più teatrale possibile, dissi.

- Signor Fujimori, il mio dovere era consegnarle, io personalmente, la cassetta. Questi erano gli accordi. Se non avessi adempiuto al mio dovere, il mio onore ne sarebbe stato calpestato -

Che balla colossale! Tirai fuori la cassetta nell'unico posto in cui Shino non aveva (purtroppo) toccato, ossia nella patta dei miei jeans e, camminando lentamente, andai a porgerla al capo Yakuza.

Fujimori mi fissò in un modo strano, che mi quasi turbò. Quello che avevo detto e che avevo fatto, ossia la balla colossale, l'aveva impressionato. A differenza che da noi, l'onore era una cosa seria in Giappone. Prese la mia cassetta e abbozzò ad un inchino. La porse ad un suo uomo che la analizzò con un magnetogramma. L'uomo fece segno di assenso.

- Hai! - disse.

- Ha adempiuto al suo dovere, Signor Zimmermann - proseguì allora Fujimori - Il suo onore è salvo. Porti i miei saluti al signor Master -

Il ragazzo fu lasciato andare. Corse ad abbracciare la sorella, mentre gli uomini della Yakuza si ritirarono dignitosamente. Fissai per l'ultima volta gli occhi di mister Fujimori, mentre seguivano il ragazzo con un'ombra di tristezza e di rimpianto che mi turbò molto.

Shino ed il ragazzo piangevano e ridevano nello stesso tempo.

Io avevo la sensazione di non aver capito se avevo fatto un'azione giusta o sbagliata.

 

Il ragazzo mangiava di gusto, accudito da una obasan commossa e felice. Io e Shino eravamo seduti su un muricciolo del piccolo giardino. L'aria del mattino seguente all'incontro era umida, ma non troppo. Una bella giornata, né calda, né fredda. Si stava bene. Delle nuvole bianche correvano alte nel cielo.

- Shino, non hai paura che tuo zio si venga a riprendere il ragazzo, adesso che ha ottenuto quello che cercava? - le chiesi.

- Per un giapponese, specie per uno Yakuza, la parola data, Marco San, vale molto di più di mille contratti. Non se lo riprenderà mai. Potrebbe però rivalersi contro di me, anche se sono sangue del suo sangue. Ho commesso un azione disonorevole, mettendo in dubbio la sua autorità. Questo non può essere accettato per la Casa Yakuza. Ci sono regole rigide. Per come lo conosco, Marco San, sono sicuro che mi ucciderà. Non subito però. Aspetterà che Akira diventerà più grande -

- Ti ucciderà? La figlia di suo fratello? Sua nipote? Scherzi? -

- Lo farà. Deve farlo anche se non vuole. Lui ammette solo la fedeltà alla Yakuza. E questa ha delle regole ferree. Io ho tradito, per cui devo pagare -

Rimanemmo in silenzio per un po'. Quello che aveva appena detto mi aveva messo di malumore.

- Quella cassetta...Adesso puoi dirmelo. Come poteva valere così tanto per lui? Un gioco di un secolo fa... -

- Quella cassetta, Marco San, è forse l'ultima rimasta di quel gioco, Black Castle. Come reperto da collezione ha un valore molto alto già di per se, ma... non è solo questo -

- Quindi? -

- E' un gioco per indizi, dove bisogna scoprire la chiave per aprire l'ultima porta del castello. Nessuno è mai riuscito a trovare questa chiave -

- Ebbene? -

- Ebbene c'è una specie di leggenda dietro questo gioco, Marco San. Dietro l'ultima porta c'è una sequenza numerica, il premio per la soluzione. Quella sequenza è un "Uovo di Pasqua" messa lì da uno degli ideatori, non solo di quel gioco, ma del sistema generalizzato di navigazione Videotel, la nascente Internet di allora, a sua volta la progenitrice di Meganet, quella che tutti chiamiamo il...ma come dite voi? Il calderone -

- Il Boiler! Un uovo di pasqua, quindi? - Avevo una vaga idea di cosa potesse essere. Forse me ne aveva parlato il Master.

- Sì. Digitando questa sequenza di cifre da qualsiasi PWT, il Boiler diventa...come trasparente! Come vetro. E' un codice universale, esistito da sempre, che nessuno conosce, quiescente e nascosto in modo molto sofisticato nella sua substruttura, tramandato da allora da quel geniale programmatore. Non so cosa significhi veramente. Ma quel codice fa diventare onnipotente chiunque acceda al Boiler. Mi capisci, ora, Marco San? -

Avevo capito, sì. Il Santo Graal del Boiler. Questo era. Una leggenda. Chi aveva ideato il Boiler aveva ideato contestualmente un codice nascosto per violarne le regole. Geniale. La tipica follia di un genio: nasconderlo, poi, nella soluzione di un raro videogioco scomparso. Ce ne erano tante di storie analoghe ma mi sembravano tutte inverosimili. Per questo non vi avevo mai creduto. Ma se ci credeva la Yakuza voleva dire che qualche verità dietro c'era eccome! Mi chiedevo che cosa avrei potuto fare se avessi avuto tra le mani quel codice, se fosse esistito veramente. Che il Master si fosse bevuto il cervello a consegnare una simile arma ad un potentissimo Yakuza? Mi vennero i brividi.

- Marco San, ti accompagno all'aeroporto -

 

Avevamo già fatto il check-in e mancava mezz'ora all'imbarco. Io e Shino eravamo sulla terrazza panoramica a fissare gli aerei che atterravano e partivano. Con una moneta di 100 nuovi Yen si poteva usare persino il cannocchiale per ammirarli meglio. Il vento sollevava i neri capelli della ragazza. Era meravigliosa mentre il sole si rifletteva in quei suoi stupendi occhi da fata orientale.

Avrei voluto che quel momento durasse in eterno.

- Shino...- le feci.

- Sì? -

- Perché non vieni via con me, in Padania? Non si sta poi male...puoi fare la consulente a Milano. Sai molte lingue. C'è del lavoro da fare...-

Ma quale, pensai! Era comico solo averlo detto. Mi sentivo così patetico! Lei, però, mi sorrise.

- Mi chiedi di venire via con te, Marco San? Cosa è, una proposta di fidanzamento? -

- Beh, ecco - arrossii - Perché? Sarebbe sbagliato, vero? -

Lei sorrise. Era affascinate mentre sorrideva. Poi, però, si fece seria nuovamente.

- Marco San. Devo aver cura del mio fratellino. I miei genitori sono morti entrambi e mia nonna, obasan, è anziana -

- Ma sei in pericolo di vita...-

- Non ora. Sono sicura. Mio zio non mi farà niente per un po'. Sa che devo crescere suo nipote. Ho modo di pensare... -

- E se.... -  stavo per dirlo - Se rimango io? - Lo dissi. Vidi le cose come sarebbero state. Forse lì potevo fare davvero il cameriere, il pizzaiolo, cucinare il risotto allo zafferano per il Sol Levante. Chi lo sa, forse un lavoro adatto alle mie capacità. Forse un'altra vita. Con lei.

- Marco San - disse lei avvicinandosi pericolosamente - Davvero vuoi rimanere? -

La fissai negli occhi. Tutto l'universo sembrò fermarsi per un minuto o due. La baciai teneramente. Fu un momento di passione così struggente che non avevo mai provato prima per nessuna altra ragazza.

L'altoparlante chiamò il volo per Milano proprio in quel momento e fummo costretti a distaccarci. Ma come! Era passata già un'ora e mezza dal check in?

Maledetta indecisione! Cominciai a sudare freddo. Volevo ma non volevo, come al solito. Lei se ne accorse. Vide dentro di me come attraverso un cristallo di Boemia, come nemmeno io, forse, m'ero mai visto prima. Vidi la sua delusione nascosta molto, ma molto a fondo, dentro quei suoi stupendi occhi.

- Marco San. Vai, torna. Ti prego - disse, adducendo una motivazione razionale - Vorrei che tu rimanessi qui con me, non fraintendermi. Ma io non ho futuro. Mio zio deciderà un giorno di farmi fuori. Devo far diventare mio fratello grande in fretta. Non voglio avere nessuno vicino con me a condividere questo destino. Vai, Marco San. Ti porterò sempre ugualmente nel mio cuore. Una donna giapponese non dimentica mai il suo amore - mi fece un inchino, trattenendo a stento il pianto. Ci riuscì. La forza di un popolo si poteva vedere anche in quella piccola cosa: non pianse.

- Io...  - l'abbracciai forte senza dire altro. Senza fare altro. Senza oppormi. La vidi ancora un'ultima volta, poco dopo, dietro il vetro dell'aeroporto, oltre la zona del check in, mentre mi salutava, sparendo nella moltitudine del suo enigmatico popolo, con gli occhi carichi di una malinconia infinita. Mi resi conto che dentro mi si era formato un vuoto come lo spazio intergalattico.

 

- Vigliacco, vigliacco, vigliacco! - continuai a ripetermi per tutto il volo di ritorno. Il cielo dal finestrino aveva un contorno amaro. Non toccai cibo ad eccezione di un vino portoghese in microbottiglie. Venni ammonito dalla hostess sulla violazione del regolamento in merito alla sobrietà a bordo. Avrei voluto farmi gettare fuori dall'aereo. Ero in collera con me stesso. Ancora una volta avevo scelto di non decidere. Maledetto che ero. Come mi mancava Shino! Che buco al cuore. Ora era già lontana chissà quanto, migliaia di chilometri, impossibile anche valutarne la distanza con l'immaginazione. Smaniavo terribilmente, sentendomi prigioniero come in una bara, dentro quell'aereo che mi riportava a casa. Il mio vicino di poltroncina era, incredibilmente, l'imprenditore dell'andata.

- Si consoli, giovanotto. Si torna a casa. La patria è sempre la patria. Io mio ritiro nel bresciano a buona notte a tutti -

- Lei ha mai preso la decisione più sbagliata della sua vita? - gli chiesi tra le lacrime.

- Io non ho mai preso una decisione giusta, ragazzo. Ho venduto la fabbrica ai giapponesi. Da generazioni la mia famiglia ci lavorava. C'è gente che sta peggio di te, credimi! -

- Non credo -

 

Hinterland della Grande Milano. Di nuovo a fumare e bere Birra Padania, insieme al Master nella fabbrica all'amianto abbandonata. Era sera ed i neggher erano tornati ad occupare le loro baracche, stanchi ma felici di coltivare ancora la speranza per il futuro. In un certo senso li invidiavo. Di certo mi trovavo a mio agio in mezzo a loro. Era la mia gente.

Il Master mi indagava. Aveva voluto risentire la storia due volte, fino al limite della mia collera. Pensavo si fosse incazzato per il fatto di essermi lasciato abbindolare così da Shino, invece non aveva detto niente. Sembrava volesse sapere altro. Ma che cosa altro c'era da voler sapere?

- Posso chiederti una cosa io, adesso, Master? - feci, allora, rilanciando.

- Dimmi - fece lui, ruttando.

- Quella cassetta. Sei forse impazzito? Hai dato la chiave del Boiler ad un boss della Yakuza. Cosa sei, un genio del male? -

Lui sorrise. Non l'avevo visto sorridere che in rare occasioni.

- Fai il moralista? Vuoi diventare un super eroe! - e mimò Superman che prende il volo. Mi fece un po' rabbia. Gli avrei dato volentieri un pugno. Se l'avessi fatto, forse l'avrei ucciso. Per questo mi repressi.

- Moralista? A parte il fatto che adesso il Re del Mondo è un boss della mafia giapponese, che problema c'è? -

- Caro mio, tu devi capire ancora molte cose. Sei giovane -

- Già e tu sei vecchio. Da rottamare, proprio -

- Non mancarmi di rispetto - rispose, indifferente - In passato sono stato un'idealista più di te. Sognavo un mondo diverso, sono stato un comunista, una parola che adesso tutti cercano sul vocabolario per conoscerne il significato...va beh lasciamo perdere, va - buttò giù un altro sorso.

Ero troppo arrabbiato per la storia di Shino per cui non lasciai perdere come avrei voluto.

- Perché l'hai fatto? Quanto ti hanno dato per quella cassetta? -

- Parecchio! Molti soldi. Sono ricco adesso, anche se non ho posto dove andare. Del resto, non riuscirei a separarmi da questo posto neanche con le cannonate. I vecchi sono abitudinari -

- Non sei uno che fa le cose per i soldi - gli dissi. Poteva essere un complimento, ma usai un tono di disprezzo.

- Neanche tu. Forse questa è l'unica cosa che ci unisce -

Le scie degli aerei riverberavano al tramonto. Pensai a Shino. Lei però stava dall'altra parte dove il sole sorgeva. Là era già buio come la mia anima.

- Insomma perché l'hai fatto? -

- Uff! Sai cosa è l'I Ching? -

- No -

- Va beh, lasciamo perdere. Di quella cassetta, vedi, ne sono rimaste due copie al mondo. Una è finita nelle mani, di recente, di un boss della Casa Yakuza rivale di Fujimori. Trovata in una discarica da bonificare in un posto, non so dove, vicino Monaco di Baviera -

- Ah -

- Eh, già. Fujimori San, allora, quando ne è venuto a conoscenza, mi ha chiesto aiuto. Lui è uno dei pochi che sa come contattarmi quando gli serve. Mi sono messo al lavoro e sono riuscito a recuperare l'altra cassetta esistente ed a vendergliela in esclusiva -

- Bravo - feci, ironico - così adesso saranno in due a spartirsi il mondo. Se eri un altro, invece, rendevi la cosa pubblica. Trasfiguravi la cassetta in un Blog nel Boiler in modo che tutti ne avessero accesso -

- Sei proprio un bamboccione! Se la gente sapesse che il Boiler non è sicuro, che i suoi soldi, le sue proprietà potrebbero essere scoperte e cancellate da un momento all'altro, se le nazioni sapessero che i loro segreti militari possono essere spiattellati alla luce del sole in un istante, sarebbe la fine della civiltà come la conosciamo. E' il titolo anche una canzone dei REM: "Is the end of the world as we known it" - 

Certe volte, i suoi riferimenti al passato erano troppo difficili per me e non capivo, spesse volte, a cosa facesse riferimento.

- Invece adesso è meglio? -

- Ovviamente sì. Adesso siamo entrati in una fase di deterrenza. Nessuno userà quel codice contro l'altro perché avrà paura della reazione dell'altro stesso. Un po' come le atomiche. Se le usa uno, le usa anche l'altro e muoiono entrambi. Deterrenza. La pace. Capito? Un po' come sta succedendo adesso in Pakistan. Tutti preferiscono una sana, bella, lunga e tradizionale guerra. Per un vecchiaccio del ventesimo secolo come me, è una cosa ben nota. Ho messo ordine al caos. I Ching! Il libro della saggezza mi ha aiutato -

- E se si alleassero? Non ci hai pensato? - gli feci.

- Certo. Succederà prima o poi. Ma la questione era: cosa fare ora. Ho fatto guadagnare al mondo un altro po' di tempo. E poi, sai, credo che ci vorrà molto, ma molto tempo, per risolvere quel gioco ed ottenere il codice. Forse un tempo infinito -  

- Perché? Come lo sai? Come facevi a sapere della cassetta? Come hai fatto a rimediare un oggetto così raro in poco tempo? - un sospetto velato mi avvolse. Era ovvio. Idiota a non averci pensato prima. Lui quasi mi lesse nel pensiero.

- Infatti. Io ho ideato quel gioco. Uno dei miei primi piccoli capolavori. Avrò avuto vent'anni scarsi - disse ammiccando - Ed io stesso ho ideato il codice. Io sono il padre del Boiler. La sua struttura, la sua matrice, è la mia figlia prediletta. Il mio unico problema è che ho parlato troppo. In molti sapevano di questo segreto. Ho creato io la leggenda del Santo Graal del Boiler. Sono fatto così -

- 'azzo - dissi. Ecco perché lo chiamavano Master. Era il padrone del Boiler in tutti i sensi - Allora possiedi una terza cassetta! Mi hai mentito! -

- No, non ce la ho - sorrise mostrandomi i suoi denti marci.

- Sei pazzo! Quindi tu non puoi...-

- No! Non mi ricordo del codice. L'ho sì, ideato io, ma l'ho scritto a caso, infilandolo dentro il programma. Era una combinazione di 268 cifre, questo solo ricordo! Era il limite della schermata. Bello eh? Romantico più che altro. Eh, eh, eh, nessuno al mondo può scoprirne la combinazione, neanche usando i permutatori quantistici dell'ultima generazione. Fatti un calcolo e vedi quante sono le combinazioni di un numero composto da 268 cifre....  -

- Potevi risolvere il tuo stesso gioco, allora, e ritrovarti quel codice! -

- Oh, certo. Solo che sai, è un gioco molto, molto difficile da risolvere. Trovare l'ultima chiave per aprire l'ultima porta, beh ecco, non è propriamente facile... uno dei motivi perché quel gioco non ha avuto molto successo ed è diventato leggendario -

- Che significa? -

- Eh, eh. La chiave per aprire l'ultima porta c'è, ma è nascosta dietro la porta che la stessa chiave apre. Ecco perché nessuno ha mai risolto il gioco. Il codice risolve il gioco e concede il suo ambito premio: il codice stesso. Ooops! Problemino! -

- Che stupidaggine! -

- Io lo trovo divertente! - rise di gusto.

- Comunque troveranno la soluzione del gioco ugualmente. Con i mezzi di oggi... smonteranno quel programma ancestrale pezzo per pezzo. Non credo ci voglia tanto -

- Ci vorrà molto più tempo di quello che credi! Quel gioco l'ho ideato io! Non un programmatore qualunque. Il codice è correlato nell'intima struttura del programma. Senza un decrittatore non esce fuori. E questo decrittatore non esiste, perché non è stato inventato all'atto dell'ideazione del gioco stesso. Usando il calcolo combinatorio e tutti i computer quantistici più potenti del mondo, ci vorranno almeno cinquanta anni. Alla fine, sai, possedere quella cassetta è come non possederla. Ma, a parer mio, la Yakuza nemmeno si metterà lì a tentare di risolvere il gioco. Le strategie della mafia giapponese sono come un'eterna partita a scacchi. Lo scopo è far sapere al rivale di essere in posizione di vantaggio, non distruggerlo. E' paradossale, ma è così -

- Non sei normale -

- Lo so, ma neanche tu -

Ci aprimmo altre due birre. Le prime stelle stavano spuntando. Pensai a Shino. Qualcosa in mezzo al petto mi si strinse dolorosamente.

- Perché non sei rimasto là? Io proprio non ti capisco - fece il Master, improvvisamente. Aveva il dono dell'importunità, cambiando argomento in un decimo di secondo. Era, inoltre, l'unica persona al mondo capace di mettermi a disagio. L'ho già detto altrove.

- Fatti gli affari tuoi! - gli risposi sgarbatamente.

- Avanti, dimmelo! - insistette. Dio, come lo odiavo quando mi perseguitava su queste cose.

- Sei un vecchio ruffiano, ecco cosa sei. Poi che ne sai che quella ragazza... -

- Io so tutto - ridacchiò.

Che mi avesse seguito? Rinunciai a capire come. Temevo un'altra rivelazione. Non volevo sapere più niente di quella storia. Provai a chiudere così la questione.

- Dovresti sapere allora che le cose sono complicate...e basta - balbettai, arrampicandomi sugli specchi.

Il Master sospirò, fissando il cielo come un guru indiano.

- Non mi pare che tu ti faccia spaventare dalle cose complicate. Forse sono tutte scuse, le tue -

- Scuse di che cosa? -

- Sono scuse per nascondere la tua vigliaccheria, ovviamente. Tu hai paura di essere felice. Non è una bella cosa, sai - 

- Paura di essere felice? - risposi, a disagio.

- Sì. Stai attento. E non è solo questo. Non si può vivere sempre senza una speranza, senza scommettere sul proprio futuro. E' meglio giocare e perdere che non giocare affatto. E la vita si gioca con le carte che hai in mano. Inutile recriminare se ti sono capitate le scartine -      

- Filosofia da quattro soldi imparata sui foglietti nei cioccolatini, Master. Poi scusa, mi fai la morale tu? Ma guardati! - fui molto cattivo con lui e me ne pentii subito. In fondo dentro di me capivo che mi diceva quelle cose non certo per malignità. Fissai i suoi occhi gelidi. Sembravano impermeabili alle offese.

- Chiamala! Dille che vai da lei! Fallo subito. I soldi ce li hai. Ti ho dato un sacco di soldi per questa missione. Te ne darò altri se ti servono. Vai, prova a scommettere su te stesso, per una volta -

Rimasi di sasso a quelle parole. Mi allontanai senza salutarlo, in odio verso di lui ed il mondo intero. Vagai in enorme stato di disagio per un quarto d'ora. Era come avere un nervo scoperto dove qualcuno ci avesse punzecchiato sopra con uno spillo.

Avevamo più di un PWT pirata, nascosti in vari capannoni abbandonati, che qualche volta facevamo usare ai neggher per chiamare le loro famiglie a casa, lontane. Erano assai scomodi ma efficienti, e li usavamo per cose urgenti.

A quell'ora, uno era libero. Presi il sistema d'accesso con l'idea di entrare nel boiler, forse per rintracciarla, forse per chiamarla, forse per parlarci, quando mi arrestai.

Pensai al nostro futuro. Pensai a me, che tornavo da lei dopo aver lavorato al ristorante, in Giappone. Pensai a lei, ed alla disillusione che le avrei dato nello scoprirmi diverso da come sperava. Pensai al dolore di un amore tradito, di una felicità equivocata. Forse il dolore più grande: il disincanto.

Lasciai il Cursore d'accesso al Boiler dov'era.

No, il Master aveva torto. Non era perché avevo paura di essere felice.

Era perché avevo paura di rendere infelici gli altri. Ed io c'ero sempre riuscito bene.

Shino non lo avrebbe meritato.

Soddisfatto della risposta che avevo trovato in me, mi allontanai nella notte. Una certa consolazione mi riscaldò piacevolmente l'anima.

D'un tratto, però, mi fermai.

Ma era proprio questa, la motivazione?

Un strano dubbio mi affiorò. Qualcosa non tornava. E' difficile, sapete, mentire a se stessi.

Mi sforzai comunque di credere di avere ragione. Scrollai le spalle e ripresi a camminare. Ci avrei pensato domani.

Mi allontanai perdendomi nella notte della fabbrica abbandonata, annegando piacevolmente i miei pensieri amari in un quell'oceano scuro che avevo dentro l'animo.           

                          

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