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Erika camminava piuttosto velocemente su quell'asfalto color grigio topo marcio da più di un secolo. Aveva un appuntamento a Chiba City per l'impianto di due dita cyborg. Le mancavano il mignolo e l'anulare della mano sinistra, un ricordino della Yakuza nel suo ultimo lavoro, ma considerando che quei musi gialli non erano il massimo della simpatia, non gradiva tenersi i loro souvenir, così aveva preso quell'appuntamento il prima possibile. Un tempo era stata una brava netrunner, ma ora con quella menomazione non le restava molto per quella professione. Certo gli arti cyborg erano meglio di quelli veri, ma non aveva la stessa sensibilità, per una nettie a volte bastava un leggero fremito sul polpastrello a far individuare magari programmi di intrusione nel proprio deck, o una piccola scossa per avvertire che un virus era entrato nel proprio sistema, aveva perso tutto questo Erika e anche il suo lavoro. Quella mattina poi era in uno stato di totale apatia, era sommersa da una strana depressione che non riusciva a scrollarsi di dosso. Forse il suo fisico era ancora scosso per l'ultimo lavoro, non era stata una passaggiata, tutt'altro, ne era uscita viva solo per miracolo. Il suo compito era di trovare un virus, anche se prima di accettare l'incarico questo non lo sapeva. Non le piaceva molto l'idea di lavorare per la Yakuza, suoi acerrimi nemici, aveva sempre cercato di creare loro casini, invece per dei strani motivi era finita sulla loro busta paga. E l'avevano pagata bene, con due dita in meno e la carriera rovinata per sempre, ma almeno era viva. Erika salì sulla metropolitana ancora con quei tristi pensieri in testa, tutti gli amici erano stati ammazzati trucemente da quei bastardi, avevano bruciato la residenza del Sig. Marcov e il suo ristorante senza nessuna pietà, ucciso tutte le persone al suo interno, compreso il boss della mafia italiana, proprio il Sig. Marcov. Naturalmente Erika non avrebbe lasciato morire la cosa così, la mafia italiana non era composta solo dalla famiglia a lei tanto cara, in Italia, a Venezia suo luogo di nascita, aveva parecchi altri agganci, persino con la famosa Cosca Siciliana.
"Prima sistemo le mie povere dita, poi sistemo quei maledetti bastardi della Yakuza!"
Arrivò alla clinica Cyborg Ing. & C, nel loro settore era la clinica più all'avanguardia e naturalmente anche la più cara. Per i soldi non c'era nessuno problema, in caso di morte di tutta la famiglia il patrimonio del Sig. Marcov sarebbe entrato nelle sue tasche, magra consolazione per essere rimasta sola e senza lavoro. Si sarebbe potuta permettere di pagare fior fiore di solitari, killer e cyborg assassini, naturalmente così avrebbe fatto.
"La famosa Yakuza, sterminata da una ragazzina di ventisei anni, ex-netrunner."
Quell'unico pensiero le permetteva di andare avanti, quell'unica vendetta la stava tenendo in vita, già la pregustava, la sentiva scorrere come fuoco nelle sue vene, le stava corrodendo l'anima. L'anima che aveva venduto al diavolo, un patto semplice e chiaro, morte contro morte. Seduta sola in quel vagone della metropolitana, guardava fuori con quell'espressione assente tipica di chi aveva perso il lume della ragione. I suoi occhi saltellavano di continuo da un immagine sfocata all'altra, senza riuscire mai a fermarla, come se il suo destino le fosse sfuggito dalle dita e ora continuavano quelle immagini a ricordarle quanto fosse difficile fermarlo oramai. Quelle strane fantasie che sfilavano senza sosta come fotografie mal riuscite di un fotografo pazzo, l'avevano quasi ipnotizzata. Erika si sentiva vuota, ma la cosa più tremenda è che non riusciva a reagire, aveva perso il suo proverbiale carattere solare, si era spenta come un astro morente. Quel buco nero che aveva preso il posto del suo cuore, le stava risucchiando senza pietà ogni risorsa di vita. Il suo corpo, bello come sempre, era diventato un semplice guscio vuoto.
**Chiba City**
"La mia fermata ... ecco ci siamo ... forza Erika questo è solo l'inizio del dramma!"
Si scosse un pò dal torpore della depressione, il giusto per avere la forza di muovere quel guscio vuoto e portarlo fino alla clinica. La hall era una sala molto grande, con una semplice scrivania nel centro e una sorridente ragazza in tuta attillata bianca, come tutto quello che la circondava. Contrariamente a quei posti clandestini, che spesso in passato la stessa Erika aveva frequentato per dei piccoli impianti neuronali, li era un ambiente quasi accecante, come prova per la loro correttezza e pulizia.
<< Buongiorno ... Erika Giorgini ...ho un appuntamento! >>
Ma l'efficiente impiegata l'aveva già riconosciuta dalle impronte oculari e le rispose con un sorriso finto stampato sul suo viso:
<< La stavamo aspettando ... segua pure il Cyborg blu ... e stia tranquilla noi siamo il massimo in questo tipo di interventi ... non sentirà niente! >>
Nell'ascensore rimase a fissare quel cyborg perfetta riproduzione di un essere umano, con l'unica differenza ...il colore dell'epidermide sintetica, un bel blu notte. Vedeva nei suoi occhi la propria immagine riflessa. Ne rimase molto colpita e per un attimo uscì da quello strano stato di catalessi. I suoi occhi erano come invecchiati di tanti anni tutto in una volta sola, due brutte occhiaie viola circondavano quei due laghetti azzurri. L'intervento fu più veloce del previsto, un'ora dopo Erika usciva guardandosi la mano. Erano perfette quelle dita, più belle di prima, ma morte come il suo cuore.

Venezia
Era la fine di febbraio e come per la maggior parte dell'anno Venezia era sommersa da una fitta nebbia, talmente densa da poter essere tagliata a fettine. Un tempo Erika adora quella città, ma ora era solo il simbolo della sua vita fallita. Aveva due cugini vegetali ricoverati presso un istituto di degenza permanente, erano stati i suoi miti, ma come tutti quelli che vengono messi sui piedistalli più alti prima o poi inevitabilmente cadono giù. Un brutto virus era circolato in rete ed entrambe ne furono infettati, ridotti da quel mostro invisibile in coma neuro-vegetativo irreversibile.
Triste.
Era tutto grigio e triste intorno a lei, tranne il suo umore quello era di un nero talmente intenso da non far nemmeno uscire un briciolo di luce, come un buco nero che risucchia tutto dentro di se.
Alta, bionda e con delle forme da perfetta pin-up, Erika indossava dei pantaloni neri jeans, un giubbotto nero antiproiettile e sotto un dolcevita nero. La pistola spuntava sulla sua coscia destra, un bel calibro, anche troppo pesante per una ragazza, ma ora lei non era più la dolce e sorridente Bambolina, ora lei era la Morte.
Trasudava morte da ogni poro della pelle.
Sentiva questo desiderio primordiale ... uccidere!
Mentre camminava per le calle isolate a quell'ora di notte, silenziosa come un gatto, inciampò in qualcosa e per poco non cadde lunga distesa. Fece una piccola piroetta in aria per rimanere in piedi e atterrò leggera un pò più avanti dell'ostacolo. Si girò di scatto e nella nebbia di quella notte nera eccheggiò un suono potente, uno sparo.
<< Aaaaaarrrrrghhhhh >>
Un urlo spezzò quell'eterno silenzio, un corpo si agitò a terra in preda a degli spasmi tremendi, poi la tranquillità tornò sovrana nella calla di San Marco. Erika si avvicinò piano e con prudenza alla sua prima vittima di quella nuova vita, aveva mirato al cuore, ma in quella situazione poteva aver sbagliato il colpo. Quando fu abbastanza vicina con il piede diede un piccolo calcio nel fianco di quell'essere. A quello ne seguì un altro allo stomaco, molto più forte, poi un terzo, un quarto e più continuava più diventavano rabbiosi e potenti quei colpi. Dallo stomaco passò alla testa, ancora calci, era come in preda alla follia, una follia distruttrice senza alcuna pietà. Si bloccò di colpo. La nebbia sembrava sparita in un attimo di pura follia. Degli schizzi di sangue le erano arrivati persino sul viso, si pulì con calma, una calma irreale. Il suo sguardo si spostò dalla pistola alla vittima, spalancò gli occhi colmi di terrore, il delirio.
Era un ragazzino di forse dieci o undici anni. Strinse i pugni quasi a farsi diventare le nocche bianche. Le unghie le si conficcarano nei palmi delle mani, ma Erika non si fermava, continuava a stringere, fino a sentire il distinto rumore del loro spezzarsi dentro la sua carne. Il suo sangue cadde nelle calle vuote di Venezia. Sangue amaro. Questa era la nuova Erika.
"Maledetta Yakuza ... guarda in cosa mi hai trasformato!"

Venezia-Il ghetto
La ragazza iniziò a correre lontano da quel corpo senza vita.
Aveva ucciso un ragazzo senza riflettere. Aveva agito d'istinto. Era sempre stata calma, tranquilla, controllata, riusciva a prendere la vita con quella giusta dose di ironia, si era sempre presa in giro da sola. Ora era cambiata, si era trasformata in una specie di animale senza controllo. La spaventava molto questa cosa, non avere il controllo dei propri sentimenti, delle proprie reazioni era come essere in balia del vento. Avrebbe dovuto imparare a convivere con il suo lato oscuro che fino a quel momento era rimasto assopito.
La bestia.
Le sue gambe la portarono senza quasi accorgersene al ghetto. Li aveva vissuto da piccola con gli zii, non era ebrea, ma il destino l'aveva depositata in quel quartiere di Venezia. I rumore dei suoi stivali sul ponte risuonavano come dei colpi da sparo, il silenzio la circondava senza pietà. Finalmente la nebbia si diradò leggermente quando Erika arrivò nella piazza del ghetto. Non aveva quasi più fiato a causa della corsa, sotto il giubbotto era sudata, ma tremava ancora per quello che aveva fatto pochi minuti prima. Si guardò le mani, il sangue era ancora fresco, le unghie tutte spezzate, o meglio quasi tutte. Le sue dita tremavano visibilmente, fatta eccezione per le due cyborg, le uniche con le unghie sane. Il ghetto aveva una forma circolare composta da una serie di alti palazzi, i più alti in tutta Venezia. L'odore di marcio non abbandonava mai quella città un tempo splendida. Delle pozzanghere d'acqua resistevano in alcuni punti dei canali che attraversano in ogni direzione tutti i quartieri della Serenissima. Quelle piccole oasi di colonie di germi brulicavano in ogni angolo, conferendo quel classico odore di morte che permeava giorno dopo giorno l'aria umida e nebbiosa. L'Erika di un tempo avrebbe pianto. La bestia non lo fece. Il piccolo appartamento di Erika, vecchia residenza degli zii, si trovava all'ultimo piano di uno dei palazzi centrali del ghetto. Il portone di entrata non c'era più, lo sostituiva un bel foro di due metri di altezza per due di larghezza.
"Chissà che ci hanno fatto passare di qua, sono anni che non vengo più, ma l'ultima volta c'era un portone di legno, malandato, ma ancora solido!" Rimase in silenzio per qualche minuto ferma nell'ingresso. Non sentendo alcun rumore, neppure quello di qualche animale strisciante di cui era piena qulle zona, estrasse dal proprio zaino un rilevatore di movimento ottico e lo piazzò in bella vista dentro l'atrio del palazzo.
"Chiunque entrerà qui dentro saprà che qualcuno dall'alto l'osserva ... uomo avvisato mezzo salvato ... si dice ... io li avviso del tutto, ma poi non li salvo per niente!" Dal mignolo spuntò una luce blu al neon e iniziò a salire le scale.
"Fanno miracoli con le fibre ottiche ore ... fantastica questa torcia!" Venezia - appartamento Quando aprì la porta lo spettacolo che si presentò agli occhi di Erika ... non era decisamente dei migliori. L'appartamento era un cumulo di polvere, ragni mutati giravano liberi e spensierati per ogni buco presente, i mobili erano ricoperti da stracci e pezzi di stoffa riciclati chissà da dove. Le finestre erano bloccate da pezzi di legno inchiodati al muro, l'odore di muffa e di marcio inondava ogni millimetro non occupato da tutto il resto. Non avrebbe funzionato niente, acqua, elettricità, era tutto in decadimento. Veloce ed efficiente piazzò i soliti rivelatori di movimento nei punti strategici dell'appartamento.
"Non so nemmeno io perchè sono venuta qui ... forse solo per farmi assalire dai ricordi ... non ricordavo quanto potessero fare male ..."
Numerose lacrime stavano uscendo da quegli occhioni azzurri, senza sosta, una dietro l'altra, come in una lunga processione di un funerale famoso. La ragazza lasciò cadere a terra lo zaino con un tonfo, sollevò una nuvola densa di particelle di polvere e di morte. Poi si lasciò cadere, anche il suo corpo stanco fece la fine del suo zaino. Era in ginocchio, con le mani sul viso e piangeva.
*Bip ... bip ... biiiip ... biiiiiiiip*
Erika sollevò il viso impolverato e rigato dalle lacrime, gli occhi spalancati e terrorizzati, il cuore che batteva veloce e l'adrenalina che già stava scorrendo a fiumi nel suo corpo provato.
"Oddio ... noooo ... non possono essere ancora loro !" Il panico stava prendendo il sopravvento, l'idea che quei maledetti della Yakuza avessero potuto trovarla li, magari per un altro incarico folle come l'ultimo, la stava facendo trepidare. Si alzò di scatto, prese al volo lo zaino e uscì di corsa dall'appartamento. Il rivelatore era quello del portone di entrata, lei si trovava al settimo piano, forse ... sarebbe riuscita ad evitarli, anche se sapeva benissimo che era impossibile. Se volevano trovarla, non aveva via di fuga con quei bastardi. Fuori dalla porta si bloccò indecisa se salire ancora o scendere piano per vedere se erano veramente loro. La sua mano era scivolata veloce ad accogliere la pistola, la teneva talmente stretta da riuscire a percepire persino la lavorazione del ferro, le dava sicurezza ... stupidamente. Nessun rumore. Nessun passo.
"Strano ... come fanno ad essere così silenziosi ... impossibile!" I polmoni si abbassavo e alzavano ritmicamente senza sosta. L'aria putrida e polverosa invadeva i suoi alveoli. Silenzio. A quel punto Erika si fece coraggio e iniziò a scendere le scale, in effetti il rilevatore poteva essere difettoso, magari il vento. Quando arrivò nell'atrio di ingresso, proprio in mezzo al buco che sostituiva il portone di entrata, si stagliava minacciosa e buia un ombra.
"Mmm ... piccolo ... orecchie ... coda ... ma che diavolo è?" La mano era leggermente più rilassata, puntò il suo dito verso quell'ombra e ... una cosa strana a raso terra iniziò a muoversi con regolarità. Erika fece un salto indietro dallo spavento, ma senza togliere il fascio di luce laser che usciva dalle sue dita. Due occhi scuri impauriti la stavano fissando.
"Oddio ... un c-cane? Ma com'è possibile? Non ci credo, stò sognando! Sono talmente rari che è considerato un miraggio incontrarne uno allo stato selvaggio! E se mi morde? Magari è rabbioso, non ho la puntura con me!" Quanti dubbi stavano affollando la mente della ragazza. Quei pensieri si accavallano senza sosta e si intrecciavano senza un ordine prestabilito. Ma erano solo pensieri. Vuote entità prodotte senza uno scopo ben preciso. Una cosa umida le stava facendo il solletico sulla mano armata, quell'oggetto strano continuava ad agitarsi ai suoi piedi, sollevando una nuvola di polvere. Innocente e pulito nell'animo giaceva scodinzolante accanto a lei. Tutto nero, pelo medio corto, decisamente spettinato e lurido, una lunga coda e una lingua morbida e bagnata ...
<< Kira ... esisti allora? Qualcosa mi dice che non mi schioderò facilmente da questi due occhioni marroni dolci come il miele! >> Sul visto di Erika rigato dalle lacrime di pochi attimi prima apparve un lieve sorriso ... intanto spuntava l'alba su Venezia.

Venezia all'alba di un incubo.
 I primi raggi di un sole pallido invernale cercavano invano di perforare quella nebbia ormai consolidata con il paesaggio. Erika non riusciva a staccare gli occhi da quell'animale. L'aveva chiamata Kira e non sapeva nemmeno se era maschio o femmina.
<< Scusa ... non offenderti ... e possibilmente non mordermi, ma mi piacerebbe sapere se sei una lei o un lui! >> così dicendo si abbassò e con gesti lenti e ben evidenti controllò la povera bestiola.
<< Già ... a quanto pare ho buon fiuto per le femmine, sono i maschi che ancora non ho imparato a riconoscere, nemmeno quelli della mia razza non preoccuparti! >> Quegli occhioni marroni la guardarono e le sorridevano. Come se fosse possibile per un cane sorridere, eppure era quella la sensazione che Erika provava sulla sua pelle. Si rialzò e fece per ritornare sui suoi passi, salì i primi gradini delle scale quando Kira le si avvicinò furtivamente e l'attaccò di sorpresa. Prontamente Erika estrasse la pistola e la puntò dritta su quel muso peloso.
<< Non pr-provarci nemmeno ... per oggi sono già a buon punto con i cadeveri innocenti ... non ne voglio altri sulla coscienza! >> Il cane però non lasciò andare i jeans della bambolina killer, li teneva saldamente tra i denti ma ben lontano dal mordere la ragazza. Sembrava che volesse qualcosa da lei, come se volesse che la seguisse in qualche strano angolo di quella città. Erika si rese conto di avere i nervi fin troppo sollecitati dagli ultimi avvenimenti che avevano trasformato la sua vita in un incubo a ciel sereno. Abbassò l'arma e provò a togliere dai denti della bestiola i suoi jeans, senza nessun risultato, non li mollava. Avrebbe potuto prenderla a calci come aveva fatto poche ore prima con quel povero ragazzo. Un bel colpo assestato proprio sotto il muso e sicuramente se ne sarebbe liberata.
“Mio Dio ... sono proprio ridotta male ad avere questi pensieri!” Stava male. Non poteva nasconderlo a se stessa. Quella non era lei, quei sentimenti di odio non erano i suoi, era di un altra Erika, la bestia che lei non voleva accogliere in quel guscio vuoto.
<< Vatteneeeee ... maledettaaaa! >> digrignò ferocemente. Kira indietreggiò solo di poco, ma senza mai mollare il suo prezioso bottino.
<< No ... non dicevo a te cucciolotta, dicevo a me stessa, a quella bastarda che sono diventata, odiosa! >> Le fece pena, si chinò verso di lei e le fece qualche carezza sul muso. A quel punto il cane lasciò la presa si voltò e fece qualche metro verso l'uscita. Si voltò verso la ragazza e rimase a fissarla.
<< Ho capito ... vuoi che ti segua vero? Ok ... allora andiamo a farci una passeggiata di prima mattina e a stomaco vuoto ... fa bene alla salute! >> Sembrò quasi capire perchè la cagnolina iniziò ad accelerare i passi, sempre più veloci, si voltava ogni tanto per accertarsi che Erika la seguisse e poi continuava nella sua corsa. Quando arrivò al suo obiettivo la mente di Erika vacillò per qualche minuto infinito.
Non poteva essere quello che immaginava. Lo stomaco della ragazza si stava contorcendo come se fosse stato posseduto da mille serpenti. Un qualcosa stava salendo fin su la gola e voleva uscire all'aperto. Cercò di resistere, cercò di respirare e mandar giù quel corpo informe che gridava la sua vittoria. Ma il risultato fu che vomitò anche l'anima, se l'avesse avuta ancora.
Vomito e lacrime caddero sul pavè corroso dal tempo e dall'acqua che un tempo invadeva quelle calle. I suoi occhi appannati da quel liquido salato continuavano a fissare quella chiazza verdognola che girava intorno a suoi stivali. Il tempo scorreva senza sosta e senza limiti.
<< Noooooooooo ... perchè mi fai questo? Dio ... perchè? >> urlò la ragazza con quel poco fiato che le restava. Kira intanto aveva iniziato a fare uno strano verso, sembrava quasi il pianto di un neonato, era straziante. Si spostava da lei a quel corpo in continuazione, ma Erika crollò a terra. La sua coscienza era diventata troppo pesante per quelle gambe lunghe e snelle. Crollò sul suo stesso vomito senza preoccuparsi troppo di sporcare quei jeans, avrebbe voluto morire quando si rese conto che Kira ... l'aveva riportata dalla sua prima vittima innocente.
Nella nebbia non si era accorta che quel povero ragazzo aveva un cane, quello stesso cane che in quell'istante le chiedeva di aiutare il suo padrone.
Avrebbe voluto morire Erika ... e ci riuscì!

Era tutto un sogno, anzi un incubo.
Venezia ... il cane ... il ragazzo morto ... tutto falso e irreale.
Erika aprì gli occhi. Il caldo era insopportabile.
Le fiamme erano sotto i suoi piedi, ricoprivano il corpo e le bruciavano l'anima.
Quella maledetta che ancora rimaneva attaccata a lei come una sanguisuga.
Quella bastarda che le teneva vivo il ricordo della sua vita passata e defunta.
"Bastaaaaaaaa ... sei morta Erika ... devi prenderne atto! Non puoi resuscitare a tuo piacimento! Non puoi più sognare ... uccide sognare dovresti saperlo! Avresti dovuto capirlo ormai! Lo fai sempre! L'hai sempre fatto ... e tutte le volte è stato questo il risveglio ... un inferno!"
Jake accanto a lei la guardò esterefatto.
Non poteva avvicinarsi, aveva i piedi bloccati in quella melma d'acciaio.
Non poteva nemmeno girare il viso, un casco lo teneva bloccato anche da sopra.
Gli stavano risucchiando l'anima e con lui erano già a buon punto.
Ora lui sentiva solo il dolore, ma non provava ricordi.
Dolore fisico, puro e vero.
Per Erika quella strada era ancora lontana.
Lei era appena arrivata ... all'inferno.

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